Quando il regista Paolo Sorrentino salì sul palco della 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica a Venezia per ritirare il Leone d’argento – Gran Premio della Giuria, i suoi occhi erano pieni di tenerezza. Sorriso buono, capelli indomabili come al solito. Disse, con la voce rotta dalla commozione, di avere pazienza, che era un po’ emozionato e che questo film non era stato facile da realizzare. Perché È stata la mano di Dio non è solo un film di Paolo Sorrentino ma è Paolo Sorrentino. Quel ragazzetto che, a sedici anni e tanti sogni, aveva finalmente avuto l’opportunità di seguire Maradona e il Napoli in trasferta. Qualcosa che, paradossalmente, gli salvò la vita quando i genitori morirono entrambi nel sonno a causa di un avvelenamento da monossido di carbonio, mentre erano in vacanza a Roccaraso.
Regia, sceneggiatura e produzione di Sorrentino, È stata la mano di Dio – attualmente al cinema ma dal 15 dicembre disponibile anche sulla piattaforma Netflix – è un film autobiografico che porta sullo schermo la storia familiare, le emozioni, i dubbi adolescenziali, i dolori di uno dei registi più acclamati del panorama cinematografico italiano moderno. E anche se la storia è la sua, a prestargli il volto è il giovanissimo Filippo Scotti, al suo esordio attoriale, ruolo che gli è valso addirittura il Premio Marcello Mastroianni a Venezia, dove il film è stato presentato in concorso quest’anno. Qui si chiama Fabio, Fabietto Schisa, e i suoi genitori sono Saverio (Toni Servillo) e Maria (Teresa Saponangelo).
Nel cast vediamo anche Luisa Ranieri, Betti Pedrazzi, Massimiliano Gallo, Renato Carpentieri, Cristiana Dell’Anna, Monica Nappo, Enzo Decaro, quest’ultimo nei panni di un surreale San Gennaro. Peculiari le interpretazioni di tutti, con uno straordinario Toni Servillo su cui oramai non abbiamo più niente da dire. Ci divertono, però, le parole dello stesso regista, che sempre durante il discorso a Venezia disse: «A chi mi dice che faccio sempre film con Toni Servillo vorrei dire: sì, e guarda un po’ dove sono ora!».
La pellicola si divide letteralmente in due parti: nella prima assistiamo al caotico susseguirsi delle vicende di parenti, vicini e amici, la tipica borghesia napoletana le cui performance talvolta un po’ sopra le righe strizzano l’occhio alle commedie di tradizione partenopea, mentre aleggia nelle atmosfere l’eco dell’Amarcord felliniano, due capisaldi del cinema di Sorrentino. L’attenzione ai rapporti familiari, intensi, umani si mescola alle ambientazioni anni Ottanta, entrando intimamente nelle dimore napoletane del tempo, un po’ barocche e un po’ kitsch.
E poi c’è Napoli, che Napoli… Il mare azzurro del Golfo è lo sfondo di cui non abbiamo mai abbastanza, tra malinconia e libertà, il porto brulicante, i vicoli, le case, i pranzi in famiglia. Tra un padre sui generis, la zia Patrizia, visionaria e seducente, la cinica e altera baronessa Focale, che abita sopra casa loro, Sorrentino mette in scena i propri ricordi felici, le speranze di un tempo, l’euforia degli anni in cui Diego Armando Maradona è stato acquistato dal Napoli. Ma i toni da commedia cedono il posto, nella seconda parte del film, a una narrazione dolorosa e spiazzante. Il totale disincanto, quella solitudine improvvisa che ti lascia inerme, nudo di fronte a te stesso e a una realtà che non è la tua, a una consapevolezza che non chiedevi di avere: che la vita non lascia scampo. Nonostante ciò, Fabietto, Paolo, riesce a trovare una via di fuga, seguendo la sua strada nel mondo del cinema a Roma, lontano dalla sua città natale così magnifica e così piena di ricordi.
Oltre al mare, protagonista indiscusso, fanno da sfondo alla pellicola alcuni tra i luoghi più caratteristici di Napoli. Abbiamo Piazza del Plebiscito, la Galleria Umberto, il Cimitero di Poggioreale, lo Stadio Maradona, ma anche Capri, la Costiera Amalfitana e la Penisola Sorrentina, mete dove il protagonista e la sua famiglia erano soliti trascorrere le vacanze estive. Una Napoli poetica e vera, priva di cliché, fotografata durante il mito Maradona, la mano de dios dal mondo ricordata per quel gol all’Inghilterra nei Mondiali di Calcio del 1986.
Un racconto di formazione dai toni amari ma una strana speranza di fondo, perché se Maradona gli ha salvato la vita, il cinema gli salverà l’anima. Sorrentino riflette sulla genesi della sua carriera e su se stesso, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, la consapevolezza dei propri desideri e della propria identità sessuale. Come il protagonista, anche noi facciamo i conti con i nostri fantasmi, con i dolori e i rimpianti, con le esperienze vissute, e prendiamo coscienza che non si va da nessuna parte senza il passato.
Accolto positivamente sia dal pubblico che dalla critica – su Rotten Tomatoes la pellicola ha ricevuto un voto medio di 7.4 su 10 – È stata la mano di Dio è stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2022 nella categoria miglior film internazionale. E ci auguriamo il meglio perché Sorrentino non ha soltanto mostrato la genesi dell’autore ma ha portato sullo schermo uno scorcio di vita, tra illusione e disillusione, e l’ha fatto con estrema sincerità. I suoi virtuosismi registici – splendido il piano sequenza iniziale – li conosciamo bene e lui lo sa perciò sa anche quando farne a meno. Un film che è una beatitudine per gli occhi e un’emozione per il cuore. Forse, la confessione più intima e toccante dell’artista al suo pubblico ma, soprattutto, dell’uomo a se stesso.