Da alcuni giorni, i ripetuti movimenti della terra, sebbene sempre più intensi e frequenti, avevano in qualche modo attenuato il senso d’allarme della gente, che era adusa agli sbalzi improvvisi a volte appena percepibili. Gli aquilani si adeguano facilmente. Ma a sera inoltrata il segnale si fece più insistente, la scossa delle 23:00 non faceva presagire cose buone, ma c’erano state date rassicurazioni dalle autorità e dagli esperti competenti, mentre Giampaolo Giuliani con i suoi mezzi empirici aveva affermato, anche senza poter precisare la zona, la possibilità di una scossa importante. E quella notte si scatenò il finimondo: scuotimenti indescrivibili della casa, associati a un rumore agghiacciante, spinsero tutti a saltare dal letto e a lasciare di corsa la propria dimora. Erano le 3:32.
La nostra abitazione, sebbene a due piani, ha uscita dai balconi a raso. Per cui rapidamente fummo fuori. Con me la cara moglie e la figlia, che in quei giorni era in ferie a L’Aquila, lei che lavora a Washington. Parlo di mia figlia Francesca perché, data la velocissima alzata dal letto, ebbe un manifestazione sincopale come si determina per un improvviso stand up, che a volte noi medici evochiamo alla ricerca di diagnosi. Ma si riprese subito. Dopo alcuni minuti, ci riunimmo nel soggiorno, insieme ad alcuni parenti che, nella speranza di stare in una costruzione più solida, si erano rapidamente portati da noi. Una rapida ricognizione dei locali rilevò solo danni limitati e alcune lesioni superficiali, ma il pensiero corse subito all’ospedale.
Che fosse capitato un evento grave era coscienza certa. Alcuni familiari si avviarono a Pineto, dove avevamo un modesto appartamento per le vacanze estive. Telefonate allarmate da Roma e dalla Sicilia, luogo di residenza di altri di famiglia. Intanto, pensavo all’ospedale. Scelsi la mia 500, dono di laurea del dicembre 1968, per andare. Ero stato nominato da qualche anno direttore del Dipartimento di Emergenza del San Salvatore, che comprendeva il Pronto Soccorso, la Rianimazione, l’Utic e il 118. Imboccai la via dell’autostrada, prendendo il casello L’Aquila Est, vicino casa mia. Mi parve la soluzione più rapida, pochi chilometri fino all’uscita Ovest e, in ogni caso, era quanto facevo tutti i giorni per raggiungere il mio posto di lavoro. A ripensarci, credo fosse stata una decisione istintiva, abituale e non riflettuta, per i possibili ostacoli che avrei rischiato di incontrare, determinati dal terremoto, che mi avrebbero potuto intrappolare. Il percorso, rapido, fu agevole e senza inconvenienti. Solo qualche calcinaccio all’interno di una galleria, non ricordo quale, ma in poco tempo mi ritrovai in uno dei parcheggi dell’ospedale dove fermai l’auto.
Durante il tragitto solo silenzio. La città, dal viadotto che la lambisce a nord, mi era apparsa illuminata come di consueto, a uno sguardo non soffermato. Non ancora erano le 4:00 e mi diressi speditamente al Pronto Soccorso, dove tutti erano in allerta. Ancora non c’erano stati arrivi, ma in lontananza già si cominciavano a sentire le sirene. Mi assicurai che gli ambienti fossero operativi e subito feci una veloce ricognizione all’Unità coronarica e alla Rianimazione, che si trovano sopra al Pronto Soccorso. Gli operatori in servizio, vigili ma abbastanza tranquilli, come pure i degenti: non vi erano stati grossi danni, qualche frattura agli intonaci e le apparecchiature tutte funzionanti. Fui rassicurato dalla relativa calma del personale e dei pazienti sia in Utic che in Rianimazione: ambienti, per quanto possibile, sufficientemente sereni. Rapidamente giù di nuovo al Pronto Soccorso, dove ancora non erano state realizzate le aperture automatiche all’ingresso per le ambulanze. Iniziavano ad arrivare i primi mezzi con i primi feriti.
Bisogna dire che da diverso tempo la ASL dell’Aquila e il consiglio dei sanitari stavano cercando di produrre un documento per l’organizzazione delle emergenze, ma le molte riunioni non erano ancora riuscite a far scaturire un protocollo operativo che potesse essere di riferimento in situazioni drammatiche, portato a conoscenza di tutti e messo in atto alla bisogna. Non si pensava al terremoto, ma a qualsiasi evento di emergenza che potesse accadere. Tutto era rimasto indeciso. Quale componente più anziano del consiglio di direzione avevo fatto notare che assolutamente bisognava prevedere la disponibilità, nell’area del Pronto Soccorso, di locali che potessero essere messi a disposizione dell’accoglienza dei feriti. Un accordo si era registrato con il responsabile della struttura radiologica, sulla necessità di localizzare in quella zona servizi di diagnostica d’urgenza avanzata come poi è stato realizzato, essendo quella esistente significativamente distante. Un’insistente richiesta fu quella di utilizzare la confinante struttura di dermatologia, che poteva benissimo operare in altri ambienti più lontani dal Pronto Soccorso o perlomeno che potesse essere messa a disposizione rapidamente in caso di emergenza. Poteva essere confermata la presenza del servizio di endoscopia diagnostica, sicuramente utile nelle urgenze. Certamente da diversificare la locazione di altri servizi non sanitari. Il protocollo per le emergenze rimase indefinito, come pure ogni decisione al riguardo.
Intanto, il Pronto Soccorso cominciava a essere affollato di letti e barelle. Pensando che sicuramente gli ambienti sarebbero stati insufficienti, con atto impulsivo spontaneo, memore di quello che era sempre stato il mio pensiero, decisi che era indispensabile rendere disponibili i locali della vicina dermatologia. Le porte erano chiuse a chiave, ma ebbero scarsa resistenza alla volontà di volerle aperte. Dopo una sommaria raccolta dei calcinacci caduti, tutti gli spazi furono disponibili per le prime cure e per la sosta dei feriti. Grazie anche alla totale dedizione, il personale di ogni qualifica, dagli ausiliari ai medici, senza alcuna convocazione spontaneamente si era presentato in massa. Ognuno per le sue capacità e competenze si pose a disposizione. Fortunatamente, le sale operatorie poterono essere utilizzate, ma la marea dei feriti era infinita e a questi si aggiungeva la massa incontrollata dei familiari e conoscenti che si presentavano per chiedere notizie. Problemi infiniti nell’identificazione dei pazienti e per stendere una lista degli arrivati vivi o deceduti.
Rapidissimo l’arrivo della Protezione Civile, che permise i collegamenti con gli ospedali della regione grazie alle numerose ambulanze arrivate da ogni località. Marche, Lazio, Umbria, un concorso di immensa solidarietà. La giornata si presentava con un sole caldo e una temperatura mite. I reparti venivano svuotati e i pazienti adagiati nei letti venivano collocati nel cortile dell’ospedale. La temperatura mite lo permetteva. Mentre continuavano incessanti le scosse, i più gravi venivano trasferiti con le ambulanze, veramente numerose, nei vicini ospedali abruzzesi, laziali e marchigiani. La Protezione Civile marchigiana, capofila dei soccorritori, aveva destinato un abilissimo funzionario al Pronto Soccorso, che operandoci a fianco, coordinava i collegamenti e provvedeva al trasferimento dei pazienti e dei feriti indirizzando le ambulanze negli ospedali disponibili della regione o di quelle confinanti, in base alle esigenze e alla disponibilità dei posti.
Sicuramente decisiva la possibilità di usufruire delle numerose vetture e la praticabilità dell’aeroporto di Preturo, rivelatosi indispensabile, che permise l’atterraggio dei grandi elicotteri e aerei di notevole capienza per superare le nostre amate montagne. L’ospedale si andava svuotando: prima la Rianimazione, poi la Terapia intensiva coronarica, i reparti chirurgici, mentre le ambulanze con i feriti più critici venivano direttamente indirizzati in altre strutture. Il Pronto Soccorso continuava a operare con una calca sempre più intensa, molti alla ricerca di notizie dei propri cari. La Guardia di Finanza aveva messo a disposizione per i degenti gli alloggiamenti degli allievi della Scuola Sottufficiali di Coppito, in parte disponibili, e ospitato tutto il sistema organizzativo della Protezione Civile. Bisogna essere sempre grati all’ideatore di quella preziosa localizzazione. In aeroporto continuo il saliscendi dei grandi elicotteri e degli aerei dell’esercito con destinazione Ancona, Roma, Pescara. Per le vittime, sempre più numerose, fu temporaneamente individuato un centro di raccolta negli ambienti e nei corridoi del poliambulatorio. Dicevo che molti letti con i loro ospiti, assistiti dai medici e personale dei reparti di provenienza, furono sistemati in una lunga fila nel cortile interno dell’ospedale, grazie alla giornata primaverile e al tiepido sole, nell’attesa di destinazione.
Intanto, la Protezione Civile aveva localizzato e intrapreso la costruzione di un ospedale da campo con pronto soccorso in una locazione attigua, facilmente raggiungibile dai mezzi di soccorso, mentre contemporaneamente cominciavano a sorgere tende per tutte le esigenze. Tende su tutto il territorio, per poter accogliere coloro che avevano dovuto lasciare la loro casa. La totalità della popolazione doveva essere assistita. Intanto, si andava realizzando sollecitamente la corsa all’accoglienza nelle strutture ricettive, soprattutto della costa adriatica, con piena solidarietà. Dicevo che la giornata di sole aveva permesso di mantenere i degenti meno gravi nel cortile dell’ospedale, mentre si preparava la struttura di tenda per l’accoglienza. Ma con il passare del tempo le condizioni climatiche cominciarono a cambiare. Nella tarda mattinata, il cielo non prometteva più nulla di buono. Nuvoloni neri intensi si cominciavano ad addensare sulla città e sull’ospedale. Nelle ore avanzate del pomeriggio la tensione nel Pronto Soccorso cominciava ad allentarsi, ridursi, mentre il rischio di un nubifragio si faceva sempre più incombente, con la scomparsa totale del sole.
L’indisponibilità ancora delle tende per la degenza poneva il problema di chi aspettava una sistemazione. Come rimedio la decisione estemporanea di collocare i pazienti su quelle ambulanze tutte allineate, attendendo una chiamata sempre meno probabile. Erano numerose, oltre cinquanta. È su di esse che trovarono ospitalità tutti i malati in attesa. Le nubi si addensavano sempre più scure e minacciose. L’ultimo paziente era stato appena collocato con sollievo, quando una violenta grandinata con chicchi grossi come sassi imbiancò in pochi minuti o per qualche centimetro di spessore tutto il cortile. Per fortuna che i pazienti erano stati tutti protetti dall’improvviso nubifragio e poterono attendere con qualche serenità il trasloco nella tenda ospedale, che intanto si andava completando nel montaggio all’angolo sud.
Nella tarda serata l’arrivo delle ambulanze e dei mezzi di soccorso si era fatto più rado. Non si sentivano più sirene, quelle poche procedevano lentamente e in silenzio si accostavano al cortile antistante i poliambulatori per depositare il loro triste carico. Scendeva buia la notte. Il Pronto Soccorso non riceveva pazienti, quelli più complessi, estratti con fatica dalle macerie, venivano destinati dalla Protezione Civile direttamente negli ospedali disponibili in Abruzzo e fuori la regione. Era stata intanto completata la tenda per la degenza e le ambulanze cominciavano a svuotare il loro carico nel nuovo ambiente. Qualche ferito veniva accolto direttamente dalla struttura d’urgenza che la Protezione Civile aveva attivato, con propri medici e personale, in misura del tutto soddisfacente. Il Pronto Soccorso si era svuotato, soltanto richiedenti notizie.
Tutti gli operatori, stanchi per aver lavorato incessantemente l’intera giornata, sostituiti da colleghi, tornavano a casa. Rimanevano a disposizione consulenti, specialisti e personale necessario. A notte inoltrata la struttura ospedaliera era completamente vuota. Prima di lasciare il Dipartimento dell’Emergenza sentii il bisogno di fare il percorso dei poliambulatori, dove corpi grandi e piccoli erano allineati, alcuni coperti, altri così come erano stati estratti dalle macerie. Tanti, ma proprio tanti. Tanti e soli. E sopravvenne la crisi emotiva, al pensiero di quante famiglie quella notte non avrebbero rivisto i loro cari, dopo tanta forza d’animo che mi aveva sostenuto per tutta la giornata. Ecco la mia piccola 500 bianca, regalo di laurea di oltre quarant’anni prima. Minuscola e sola, nel grande parcheggio ormai deserto. Aveva i sedili colmi di grandine, caduta nel pomeriggio e non ancora disciolta. I vetri dei finestrini dalla notte erano rimasti abbassati.
Un contributo a cura di Giorgio Castellani, medico cardiologo, nel 2009 direttore del Dipartimento di Emergenza dell’Ospedale San Salvatore