Disturbi dell’identità di genere attuali o pregressi: così vengono definiti i requisiti che il candidato al concorso per agenti di polizia non può assolutamente avere, pena l’esclusione dalla procedura. Una definizione che non solo è priva di qualsiasi senso logico, ma che è soprattutto fortemente discriminatoria poiché condanna, di fatto, la ricerca della propria identità di genere che è invece un diritto fondamentale.
«Non puoi avere dubbi, e del resto non puoi neppure averli avuti in passato. Non puoi costruire la tua identità, non puoi essere così come senti» sembra dire il concorso. Un requisito che non ha alcuna aderenza con la realtà se si pensa che più di trentadue anni fa – precisamente il 17 maggio, poi dichiarato giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia – l’omosessualità è stata cancellata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità dall’elenco delle malattie mentali, con un processo che è stato frutto di rivendicazioni lunghe e faticose della comunità LGBT fin dalla metà del Novecento, impattando enormemente nella vita di migliaia di persone a lungo considerate deviate.
Appena tre anni fa è stata, poi, la volta della cosiddetta disforia di genere e così, oggi, finalmente, essere transgender non significa più essere affetti da una malattia mentale. Lotte e rivendicazioni che sembrano però star dissolvendosi nel nulla se ci troviamo a leggere simili bandi, con i quali si ha la presunzione di ricercare persone da valutare e scegliere sulla base di elementi vergognosi. La strada da fare è ancora lunga, nonostante in molti ritengano che non esistano più discriminazioni – o che leggi di tutela non siano necessarie – se addirittura le istituzioni pongono al fianco della schizofrenia o dei disturbi dissociativi i disturbi dell’identità di genere.
Non si tratta né di un refuso né di una notizia destituita di ogni fondamento – come hanno avuto modo di replicare gli stessi corpi di polizia: il bando parla chiaro e lascia poco spazio all’interpretazione. Il testo è stato pubblicato due mesi fa, eppure la notizia, per quanto scandalosa, non ha avuto alcuna rilevanza, se non quella derivante dalla denuncia di un candidato che si è sentito discriminato e ha deciso di rivolgersi a un avvocato. È stata anche rivolta un’istanza alla Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e al capo della polizia Lamberto Giannini per revocare la dicitura, ma al momento non si registra ancora alcuna reazione.
Il motivo per cui una simile notizia non suscita clamore è grave: la mentalità comune ha di fatto assorbito tali pregiudizi, che sono estremizzati in alcune istituzioni come quelle delle forze dell’ordine che si fanno portatrici di un ideale tossico di mascolinità, secondo cui l’individuo deve avere l’unica aspirazione di assomigliare a un super uomo. Dunque, non siamo stupiti, anche perché una simile tabella di “requisiti fisici e mentali” esiste da tempo e se ne trova traccia in altri bandi ufficiali, ma soprattutto in un preciso decreto del Ministero dell’Interno riguardante il tema ed emanato nel 2003, in cui figurano già, tra i disturbi mentali, quelli attuali o pregressi dell’identità di genere.
Un simile episodio svela anche un ulteriore gravissimo elemento e cioè qual è l’approccio della società contemporanea e delle nostre istituzioni nei confronti di quelli che sono i veri disagi psichici o le vulnerabilità, trattati alla stregua di qualcosa da rifuggire, rinnegare, nascondere.
Quanto avvenuto non dovrebbe indignare solo chi è coinvolto o si sente direttamente discriminato, bensì tutti noi, immersi in una società che costruisce pregiudizi e si nutre degli stessi. Qual è il canone di normalità che abbiamo assorbito? Quello patriarcale, dell’uomo forte e valoroso, che protegge la donna, che la oggettifica e che non le lascia alcuna scelta se non quella di soccombere? Credere, come in molti si affannano a dire, che non esistano categorie discriminate all’interno della società, significa non avere alcuna consapevolezza e quanto avvenuto ne è la prova. Ma come ci possiamo aspettare una legge di tutela e, ancor di più, un’educazione collettiva, se le prime discriminazioni provengono da coloro che dovrebbero evitarle?