È arrivato in sordina, distribuito in Italia da Tucker Film il 23 settembre 2021, anche se si era già fatto notare nel luglio precedente, in concorso alla 74ª edizione del Festival di Cannes. Stiamo parlando di Drive my car (Doraibu mai kā), pellicola del regista e sceneggiatore giapponese Ryūsuke Hamaguchi, la quale si è insinuata sottovoce per poi esplodere, in una sorprendente escalation di successo che l’ha vista vincitrice del Prix du scénario al Festival di Cannes e poi del Golden Globe 2022 per miglior film in lingua straniera. E non è finita qui.
In corsa agli Oscar 2022, che si terranno nella notte tra il 28 e il 29 marzo, l’opera si è aggiudicata ben quattro candidature, come miglior film – un primato (poiché si tratta del primo lungometraggio giapponese a ottenere tale candidatura), miglior regista, migliore sceneggiatura non originale e miglior film internazionale. Ma cos’è Drive my car e perché la maggior parte della critica lo ritiene tra i migliori film, se non addirittura il migliore, del 2021?
Prima di addentrarci in questo affascinante road movie nipponico, c’è da dire che Ryūsuke Hamaguchi non è affatto l’ultimo degli sprovveduti. Solo l’anno scorso si è distinto con l’uscita di ben due pellicole, questa e, precedentemente, Il gioco del destino e della fantasia che ha vinto l’Orso d’Argento, gran premio della giuria al 71º Festival di Berlino. Due produzioni che mettono in scena la potenza suggestiva delle sue scenografie e le sue sofisticate doti registiche, di cui si sta accorgendo sempre più anche il resto del panorama cinematografico occidentale.
Protagonista della narrazione è Yusuke Kafuku (interpretato da un ottimo Hidetoshi Nishijima), attore e regista di teatro la cui vita pare stia per sommergerlo del tutto. Nonostante gli anni trascorsi, non sembra riprendersi dalle perdite e le sofferenze subite e i fantasmi di un passato che non riesce ad affrontare aleggiano su di lui. Fino a quando non gli viene proposto di mettere in scena una rappresentazione del dramma di Anton Pavlovič Čechov, Zio Vanja, al Festival di Hiroshima. Con la sua Saab 900 Turbo rossa, Yusuke è deciso a mettersi in viaggio per quest’avventura ma la direzione del teatro gli impone un’autista. Misaki Watari (Tôko Miura), giovane e introversa, oltre a guidare la sua auto per l’intera durata del lavoro, diverrà quell’“elemento di disturbo” che porterà il protagonista a fare i conti con se stesso e con il proprio approccio alla vita.
Adattamento dell’omonimo racconto di Haruki Murakami, contenuto nella raccolta Uomini senza donne (2014), Drive my car fonde letteratura, teatro e cinema, in un connubio di estrema poesia. Merito dell’eccellenza di un regista e sceneggiatore che sceglie apposta una storia non particolarmente articolata per porre l’accento su ciò che davvero gli interessa nel profondo: i personaggi e le relazioni tra loro. La caratterizzazione e la loro messa in scena dimostrano l’assoluta importanza per Murakami del fattore umano in ogni sua sfaccettatura, nelle debolezze, nelle angosce, nelle speranze. Assistiamo a una storia di formazione o, per meglio dire, di rivoluzione, che possiamo dividere in quattro cicli: la vita di Yusuke prima del viaggio, la messa a punto della rappresentazione teatrale, il viaggio e l’epilogo. Quattro tappe di una trama, che sono anche quattro tappe di un percorso di vita in cui si deve decidere, a un certo punto, che direzione prendere.
Una regia senza dubbio elegante e delicata che sa però mettersi da parte senza eccessivi virtuosismi della macchina da presa, in favore di inquadrature tattiche, primissimi piani e campi e controcampi. Un altro degli aspetti cardine del film sono, infatti, i dialoghi. Lunghi, molteplici, intensi, alternati da gesti indicativi, silenzi eloquenti e un’intensa colonna sonora, che rendono Drive my car un prodotto da assaporare fino in fondo, boccone dopo boccone. Sappiamo che questo tipo di pellicole non è per tutti e che alcuni spettatori potrebbero trovare il ritmo un tantino lento e greve. Ma basta lasciarsi trasportare da questa piccola perla per provare a cogliere l’essenza delle cose, della vita, perdersi e poi ritrovarsi come succede a tutti durante la propria esistenza. Affrontare la solitudine, le sconfitte, l’amore, la paura ma soprattutto l’estrema difficoltà nel relazionarsi agli altri, nell’aprirsi agli altri. L’estrema difficoltà nel comprendere che nessuno si salva completamente da solo. Un totale di 179 minuti che potrebbero riservare grandi sorprese agli Oscar di quest’anno.
Stiamo assistendo, negli ultimi anni, a una sempre maggiore presa di coscienza della grandezza del cinema orientale, a lungo considerato un po’ un mondo a parte, specie in riferimento agli Academy Awards. Basti solo ricordare la schiacciante vittoria di Parasite di Bong Joon-ho, che vinse quattro Premi Oscar nel 2020, compreso quello di miglior film (fino ad allora mai assegnato a una pellicola che non fosse in lingua inglese). Oppure Minari, regia di Lee Isaac Chung, altro gioiellino coreano, con sei nomination agli Oscar 2021 (vinse miglior attrice non protagonista a Youn Yuh-jung).
Ci rammarica dirlo ma Drive my car risulta superiore rispetto al nostrano È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino ma non solo. Per molti pare che ci siano buone probabilità di aggiudicarsi nientemeno che la statuetta a miglior film, contro pellicole ben più favorite, come Il potere del cane, di Jane Campion. Forse per l’abilità di scavare davvero l’animo di ognuno di noi, in un viaggio letterale ma anche e soprattutto metaforico, interiore per entrambi i personaggi e per lo spettatore stesso. Perché in fondo, come si usa dire, ognuno che incontriamo nella nostra vita lascia un po’ di sé e prende un po’ di noi.