Se la pandemia da COVID-19 non avesse fatto irruzione nelle nostre vite, l’asse 5 Stelle-PD sarebbe saltato già un anno fa. Matteo Renzi aveva pronta ogni mossa: approfittare dell’implosione del governo penta-leghista, occupare le poltrone che contano con i dem ancora sudditi della sua leadership, fare un buco nella barca del Nazareno e saltare sull’unica scialuppa disponibile, il centrodestra di Berlusconi. In quell’occasione, il senatore fiorentino portò a casa due ministeri, la vicepresidenza della Camera e, soprattutto, la consapevolezza di poter fare da regista all’ennesimo esecutivo di larghe intese commissariato dalla BCE. Draghi attendeva sornione, dal proprio scranno dorato, la chiamata del suo sicario.
Soltanto dodici mesi più tardi, la scena – con i contagi e le morti che non destano più angoscia nell’opinione pubblica che attende il bollettino delle 18 – può sembrare la stessa ma, in realtà, è un terreno totalmente stravolto sul quale la battaglia può avere luogo. Ed ecco spiegato l’intervento del leader di Italia Viva, premeditato e tenuto in canna a rinvigorire la propria vendetta verso colui che avrebbe voluto spazzare via già tempo fa, Giuseppe Conte, il suo Dorian Gray, la versione pulita di quel ritratto avvizzito e ossessionato da eterna giovinezza e potere.
Di Mario Draghi ognuno ha la propria opinione, in tanti ne bagnano il varo politico con fiumi di invocazioni, tanti altri – noi compresi – sentono un brivido correre lungo la schiena, un presagio che sa di cieli bui sotto i quali ci siamo già trovati in affanno. Quel che la sua chiamata a formare un governo dichiara è la totale incapacità della politica di casa nostra ad affrontare una crisi: ogni volta che, a causa del continuo rincorrere esclusivamente la propaganda, il giocattolo del Parlamento smette di funzionare, i tecnici sono chiamati ad aggiustare le cose. Fu così nel 2011, torna di moda dieci anni più tardi.
La nomina dell’ex capo della Banca Centrale Europea è una sconfitta per tutte le forze in campo, nessuna esclusa, la certificazione della loro inettitudine, tanto brave ad aizzare le folle quanto ad abbandonarle in preda a deliri oramai impossibili da saziare. Mario Draghi è il sigillo di garanzia dei mercati e non della gente qualunque, è il portabandiera di Confindustria e lo spauracchio dei suoi operai, il portavoce dell’élite della finanza europea e il censore dei piccoli risparmiatori. Sorprende, dunque – in verità non ci sorprende per niente –, la straordinaria distesa di carta stampata che fa già a gara a disegnarne il profilo migliore, con le testate nelle mani di quei potenti che lo accompagneranno con parole trionfanti (dai partiti politici alle famiglie come gli Agnelli, o i CDA delle delle banche d’affari) a prendersi la fiducia benedetta dai brokers… pardon… dai parlamentari.
Gli argomenti messi sul tavolo a cui invitano la popolazione affamata sono gli stessi già utilizzati per Mario Monti nel 2011: competenza, serietà, autorevolezza. Ma a favore di chi? Perché è vero che la politica, e anche la gente, dimentica tutto alla velocità di un singolo like, ma i pochi avamposti di verità – come questo giornale si pone ogni giorno l’obiettivo di essere – non possono non ricordare che i punti di spread guadagnati dal Professore ci costarono la peggior riforma delle pensioni possibili, la Fornero, l’abolizione dell’articolo 18 e il via definitivo alle politiche liberiste. Draghi è della stessa, identica scuola.
E se l’alternativa a una nuova stagione di austerità fosse il voto tanto temuto, allora ben venga anche quello. In fondo, si potrà mica ritardare per sempre l’appuntamento per paura di consegnare il Paese a Salvini? Può mai essere soltanto questa la motivazione che tiene in piedi un Parlamento in nome delle logiche di lobby e poteri forti, stavolta forti per davvero?
A pensar male, tante volte, si finisce per cadere vicini alla verità. E, quindi, questa brusca virata tirata a Giuseppe Conte non ci sembra casuale, non ora che la pioggia di denaro del Recovery Fund inonderà le tasche dei partiti che troveranno una quadra attorno a Mario Draghi, all’uomo di Goldman Sachs, guarda caso ancora una volta PD, Forza Italia, Lega, con nomi come quello della Bonino già tornati in auge. Non c’è che dire: gioco-partita-incontro. L’inesperienza e il trasformismo dei 5 Stelle si è rivolto proprio contro i suoi consociati.
Nulla è già scritto, certo. Dal quartier generale grillino sembrano intenzionati a tirarsi fuori da un’ipotetica maggioranza e se il duo Salvini-Meloni dovesse fiutare l’affare (a meno che di un accordo con Renzi per evitare le urne), chissà che la crisi governativa non si risolva proprio nella chiamata al voto per gli italiani, un dramma nel dramma che rallenterebbe la macchina statale per le questioni più urgenti da affrontare: il piano dei finanziamenti da presentare a Bruxelles, la campagna vaccinale, il ripristino dei servizi essenziali alla cittadinanza e i ristori alle attività in difficoltà.
Non esiste una soluzione che valga per tutto e, al tempo stesso, i 5 Stelle non sono certo le vittime di un disegno più grande, come da domani cominceranno a vendere la loro incapacità ai propri elettori. Gli uomini di Beppe Grillo si sono adeguati alle logiche dell’establishment che promettevano di combattere e ne sono rimasti schiacciati. Renzi aveva annusato l’odore del sangue già quando Salvini si esibì a petto nudo sulle consolle del Papeete e ha azzannato alla prima occasione utile a dimostrare cos’è la politica, tutt’altro che l’arte nobile che i padri fondatori della Costituzione intendevano proporre sulle macerie del dopoguerra.
Il coro di santificazione di Mario Draghi non echeggerà delle nostre voci. Non ci schiereremo dalla parte di chi chiederà all’Italia di indebitarsi anche facendo ricorso al MES senza scomodare la BCE a finanziare la ricostruzione degli Stati messi in ginocchio dal COVID, non ci uniremo alla schiera di quanti nella persona che piegò la Grecia di Tsipras al periodo più difficile della sua storia recente vedono il salvatore dell’Italia che alla penisola ellenica è stata spesso accostata per le gravi difficoltà in materia di economia.
Chiederemo – come sempre – il ricorso alle politiche sociali, all’equa amministrazione delle finanze e una seria politica del lavoro che coinvolga le nuove generazioni, quelle che il debito del Recovery Fund lo pagheranno ancora tra trent’anni. È la notte più buia e nel favore delle tenebre la politica ha fatto ancora i suoi loschi scambi.