Dov’eri l’11 settembre? Non vi è persona che non sappia rispondere a questa domanda. Chiunque ricorda, con esattezza, dove si trovava e cosa faceva l’11 settembre 2001, il giorno che ha cambiato il mondo. Per sempre.
Sono due, anzi tre, le date della storia recente a cui fare riferimento per tentare di dare una spiegazione della realtà odierna. La prima, oltre trent’anni fa: 9 novembre 1989, la caduta del Muro di Berlino. L’ultima, il 31 dicembre 2019: a Wuhan, in Cina, viene registrato il primo caso di Covid-19. Nel mezzo, l’attentato a New York City e al Pentagono, vent’anni fa, oggi.
Sugli schermi televisivi di tutto il mondo, la torre nord del World Trade Centre di Manhattan brucia e offusca il cielo con una fitta nube di fumo nero. Gli occhi di ogni individuo sono puntati sul grattacielo che soffre le fiamme. Qualcosa lo ha appena colpito. C’è chi parla di un aeroplano, qualcun altro di un missile. Le persone, all’interno dell’edificio, tentano di scappare via, molti sono intrappolati.
Mentre le telecamere indugiano sul landscape della città, un boing dell’American Airlines si schianta contro la seconda torre, la torre sud. Tutto è ormai chiaro: l’America è sotto attacco. Nella disperazione di quegli attimi senza senso, qualcuno, per sfuggire a quel tragico destino, si lancia dalle finestre. The falling man, verrà ricordato così. Passa qualche ora soltanto e le Torri Gemelle si sgretolano come fossero di polistirolo.
Nel corso dell’intervista rilasciata al Corriere della Sera per il ventesimo anniversario dell’attentato, la scrittrice Fran Lewbowitz ha confessato: «La notte dell’11 settembre camminando a Downtown notai un rumore che non senti mai a New York. Il suono dei miei passi per strada». Storditi dall’incalcolabile impatto emotivo che quelle immagini stavano avendo su ognuno di noi, non riuscivamo a renderci conto di quanto ogni aspetto delle nostre vite stesse cambiando irrimediabilmente.
I bambini di allora hanno conosciuto un mondo diverso da quello che chiunque, prima di loro, aveva affrontato. L’11 settembre è stato il primo evento di una nuova era tecnologica, un’epoca in cui, in pochi secondi, i video di qualsiasi tipo di avvenimento scorrono sugli schermi di tutti, in tutto il globo. Nel 2001 i social non esistevano, gli smartphone ancora non avevano stravolto il mercato della telefonia mobile, eppure ogni tv, radio, cartellone luminoso, vetrina di un negozio di elettronica passava le immagini del World Trade Center. Era impossibile non sapere: come oggi, ma senza la stessa tecnologia. E questo deve bastare a rendere l’idea della portata di quell’evento.
I coetanei sparsi in ogni parte dei cinque continenti dei ragazzini intrattenuti dal Presidente George W. Bush in una scuola della Florida mentre leggeva loro una favola hanno imparato a fare i conti con una nuova paura, un’insicurezza insolita, e con una parola mai sentita prima di allora: attentato. Questo termine utilizzato di rado da qualche telegiornale per raccontare rappresaglie lontane dal mondo occidentale condizionava, d’improvviso, le loro scelte future. Diventavano, senza averlo potuto scegliere, più aggressivi, sospettosi, meno aperti verso il confronto con l’altro.
L’11 settembre aveva creato loro un nemico senza avergli raccontato di esser stati suoi complici, di aver fatto affari con lui e di averlo armato nel corso di una guerra fredda combattuta sul suolo di un territorio, l’Afghanistan, prima estraneo a ogni atlante scolastico occidentale. L’opposizione alla Russia, già negli anni Novanta, aveva portato gli Stati Uniti a equipaggiare gli integralisti poi ricercati per offrire un colpevole a questa nuova storia da raccontare. Perché, come insegna ogni film con cui allevano i figli gli americani – siano i magici cartoni della Disney o i fumetti da collezione dei supereroi – c’è sempre un buono (la cui divisa ha spesso i colori della bandiera a stelle e strisce) e un cattivo, spesso diverso per estrazione sociale o etnia.
Così, oggi, dopo vent’anni, riscopriremo empatia ed emozione verso gli alleati statunitensi, sentiremo di dover stare vicini alle famiglie coinvolte negli attentati e guarderemo a ciò che la storia continua a raccontare della guerra scoppiata successivamente a quel giorno senza soffrire il dovere di schierarci al fianco di un’altra comunità, quella afghana, che paga un prezzo persino più alto di quello estorto al popolo americano.
Un conflitto ingiusto che, per i giovani di Kabul, incredibilmente somigliava a una speranza, una fiducia associata, però, all’idea dell’occupazione, della militarizzazione dei propri quartieri, una normalità che passava dalla presenza dei soldati in strada, negli uffici, agli ingressi delle città. Vent’anni di sogni affidati a ciò che i sogni li strappa, le bombe. Li abbiamo traditi.
Vent’anni e il nastro si riavvolge: stesse barbe, stessi kalashnikov, stessi burka, stesso falling man, stavolta non più da una torre rovente, ma da un aereo che lo ha lasciato a terra. Quando, tra qualche tempo, il riverbero di questo anniversario sarà lontano e le telecamere del mondo occidentale si spegneranno su Kabul e l’Afghanistan, i diritti umani conquistati con fatica e coraggio da donne e minoranze etniche presenti sul territorio spariranno definitivamente, come le bandiere USA presso le ambasciate già riconquistate dai talebani.
La ricorrenza dell’11 settembre dev’essere l’occasione per ripensare al mondo nella crisi globale che sta vivendo. Da quella data del 2001, i governi hanno lavorato sempre più allo svilimento della politica, hanno abbandonato l’arte del progettare per passare a identificare tutti in amici e nemici.
Questa guerra, cominciata a New York e proseguita nel sud del continente asiatico, è stata costosa soprattutto in termini di diritti. Dall’11 settembre, il mondo intero ha smesso di chiedere alla politica di svolgere il proprio nobile ruolo, e la crisi moderna dovuta alla pandemia da Covid-19 ha riacceso questo processo, provando a renderlo irreversibile.
L’isolamento distrugge la necessità dell’essere umano di sentirsi parte di una comunità. Come sottolineato in apertura, sono tre le date della storia recente a cui fare riferimento per tentare di dare una spiegazione della realtà odierna, tre le date che in qualche modo convergono e modellano il mondo che è. Il 9 novembre ’89, successivamente alla caduta del Muro di Berlino, chiunque si sconvolgeva del controllo che esercitava la Stasi sui suoi cittadini. Oggi – come ricorda il docente pakistano Tariq Ali – ogni Paese occidentale può sorvegliare tutti i suoi cittadini.
Dov’eri l’11 settembre? Tra vent’anni, qualcuno potrebbe porci la stessa domanda. Chissà se sapremo dare ancora risposta, chissà se alle terribili conseguenze che impattano e impatteranno sul nostro futuro sapremo associare questi giorni d’estate. Chissà se sapremo evitare di raccontare ancora una nuova, vecchia storia.