Alessandro Cipriano è un medico del Pronto Soccorso di Pisa, dove i malati di COVID-19 sono costretti a passare prima di entrare nell’area ad hoc. Presidente dell’Associazione Bhalobasa e impegnato in diversi progetti socio-sanitari, il dottor Cipriano ci ha offerto il suo punto di vista su chi, come lui, è in trincea e ha toccato con mano il virus, spiegandoci cosa vuol dire diritto alla salute e perché, a suo avviso, i medici non sono degli eroi.
Dottore, possiamo obiettivamente dirci che all’inizio c’è stata una forte sottovalutazione del virus sia a livello politico sia per quanto riguarda l’opinione pubblica. Negli ospedali, invece, quando vi siete accorti di essere di fronte a un fenomeno così grave e potente?
«Non sono così convinto della tesi della sottovalutazione sostenuta da molti virologi: non so quanti di loro abbiano mai visto un malato di COVID, fatto sta che non era così facile prevedere cosa sarebbe successo. In ospedale ci siamo accorti che qualcosa stava accadendo a inizio marzo, in presenza di polmoniti strane. A quel punto, sono state emesse delle direttive che abbiamo seguito attivando tutte le procedure di questi mesi».
Rimane comunque positivo affidarsi alla comunità scientifica, a dispetto di quanti dicano che la politica stia delegando eccessivamente…
«La verità è che tutti ne sappiamo poco perché il virus è uscito da tre-quattro mesi. Per questo non vorrei essere nei panni della comunità scientifica poiché se sbagli in senso negativo paghi grosse conseguenze: pensa alla Lombardia o agli Stati Uniti. Sentivo un esperto di COVID sostenere che non esista un esperto di COVID dato che la malattia è sorta da poca. Questo vale anche per il tema delle riaperture: in teoria si potrebbe ripartire, ma può darsi che vada bene come può darsi che vada male. Ciò non toglie che una linea vada presa e la più solida resta proprio quella della comunità scientifica».
Però in Lombardia ci sono stati degli errori a livello decisionale. Non trova?
«Sì, lì stanno emergendo delle cose complesse. Guardando i dati, si può pensare che qualcosa sia successo: d’altronde, parliamo di una regione ben organizzata che ha delegato tanto alla sanità privata ma a queste domande non c’è una risposta, per ora».
I medici e il personale ospedaliero hanno ricevuto numerosi plausi e incoraggiamenti, ma a ciò si sono contrapposti singoli casi dove ha prevalso l’egoismo anche nei confronti dei Suoi colleghi – penso all’episodio di un infermiere che, al termine del turno di lavoro, è stato insultato in un supermercato perché aveva superato la fila (tra l’altro, rispettando la regola). In questa fase così delicata, ha mai avuto momenti in cui si è sentito solo?
«Questo fa parte dell’umore di quella gente che varia in base alla pancia. L’emergenza è iniziata il 3 marzo? Noi fino al 29 febbraio eravamo l’emblema della malasanità italiana, i Pronto Soccorso facevano schifo e tutto era un disastro. Un po’ come succede nel calcio: la Nazionale fa schifo ma, quando vince il Mondiale, i calciatori diventano eroi. Ho visto tanti operatori nei reparti che hanno lavorato benissimo e hanno fatto il loro dovere come lo fanno i pompieri o gli insegnanti in alcuni quartieri difficili: la parola eroe non ci è piaciuta perché abbiamo svolto il nostro lavoro di medici. Da anni, vedo persone negli ospedali lavorare in silenzio facendo sacrifici, quindi anche prima dell’emergenza. All’inizio c’è stato un po’ di mal di pancia per l’uso dei dispositivi di protezione individuale ma c’era più la paura di non averne che di averne: avevamo la sensazione di essere un po’ allo sbaraglio ma rendiamoci conto che anche le Aziende si sono trovate ad affrontare un terremoto inaspettato».
Qual è l’episodio che Le è rimasto più impresso di questi mesi?
«Tra tutti, due: sicuramente, la grande paura personale iniziale, a cui ormai siamo abituati e che i dispositivi di sicurezza ci hanno un po’ fatto lasciare alle spalle, sebbene non fosse facile convivere con la paura di prendere il virus con il rischio di trasmetterlo anche nelle nostre case. Il secondo, invece, riguarda il giorno in cui ho chiamato la famiglia di un contagiato settantenne per comunicare che il signore era guarito. In quel momento, mi sono messo a piangere insieme alla figlia del paziente. Devo dire che abbiamo visto molta umanità: mi viene in mente la lettera di una ragazzina di dodici anni lasciata per il padre che era ricoverato a causa del COVID-19. Bisogna pensare che non solo i parenti lascino il malato e vadano via ma c’è anche il rischio di non rivederlo più».
A tal proposito, pensa che prima di questo virus gli operatori sanitari e la sanità nel suo complesso fossero stati trascurati? Mi spiego meglio: Lei è un medico molto giovane ma pensa che da quando ha iniziato a frequentare gli ospedali sia cambiato qualcosa?
«Dal punto di vista del Pronto Soccorso il dato è chiaro: c’è stata una riduzione drammatica dei posti letto. L’Italia ne ha 3.6 ogni mille abitanti mentre la Germania ne ha più del triplo, così come qui abbiamo 12 posti letto in terapia intensiva ogni centomila abitanti mentre in Germania 29. Queste sono scelte politiche dalle quali possiamo trarre le nostre conclusioni, tra cui quella relativa alla comparazione tra il numero di vittime. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale resta comunque uno dei migliori, ma i tagli sono stati particolarmente incisivi».
Secondo Lei cosa vuol dire, in concreto, avere diritto alla salute?
«In Italia vuol dire avere accesso al SSN in maniera gratuita e libera, dunque permettere a chi ha un’emergenza di accedervi in maniera semplice e su questo va detto che il nostro Paese è un esempio».
Qualcuno lamenta la prevalenza del diritto alla salute sulle libertà individuali oggetto delle attuali restrizioni…
«Ora è così, questa è una parentesi dovuta a un’anomalia che entrerà nei libri di storia e, se non avessero fatto quello che hanno fatto, il sistema sarebbe scoppiato. Ti faccio un esempio: Pisa ha 242 posti letto per il COVID di cui circa 55 in terapia intensiva e siamo arrivati a riempirne circa 200. All’inizio, vedevamo malati che arrivavano continuamente, poi ne abbiamo visti sempre meno, quindi la scelta del lockdown ha portato i suoi frutti, non c’erano altre soluzioni. Discorso diverso è capire per quanto far durare queste scelte perché è vero che bisogna riprendersi ma nessuno ha esperienza in merito. E se si partisse daccapo e tra qualche settimana le terapie intensive fossero di nuovo piene, chi dice che oggi bisogna riaprire darà poi la colpa a Conte? Se in questo momento i politici facessero silenzio sarebbe meglio perché tanto non hanno una soluzione. È concepibile l’occupazione in Parlamento, adesso? Siano uniti e dopo ricomincino la loro battaglia».
Lei è Presidente di Bhalobasa, un’associazione che si occupa di sostegno a distanza nel settore socio-sanitario e scolastico in Paesi sottosviluppati. Inoltre, è a contatto con molte realtà culturali. Qual è la più eclatante negazione del diritto alla salute che abbia visto nel Suo impegno sociale o anche nella Sua carriera?
«Nel mio impegno sociale in continuazione: si va dalla fame in Burkina Faso all’assenza di terapie per le malattie batteriche più elementari. In Italia la negazione del diritto alla salute è evidente, ad esempio, nella carenza di posti letto o nella costruzione di strutture che poi non vengono utilizzate o, peggio ancora, nella forte riduzione del personale assunto che ora è stato un po’ compensato grazie all’assunzione degli specializzandi. Ma è anche vero che abbiamo un alto numero di laureati e un basso numero di specialisti a fine percorso che sono meno di quanti ne servano. E anche questa è una scelta politica: farne laureare tanti e farne specializzare pochi».
Quanto il Suo impegno sociale Le è tornato utile in questi mesi? Mi riferisco anche all’empatia che avrà sviluppato negli anni…
«Bisognerebbe chiederlo ai pazienti. Di certo, mi è tornata molto utile l’esperienza della Protezione Civile che ti insegna a tenere unito il gruppo e a puntare all’obiettivo, anche perché quest’emergenza è stata gestita con i criteri propri della Protezione Civile. Bhalobasa, invece, mi ha dato tanto per quanto riguarda i rapporti umani».
Immagino che fare il medico debba essere anzitutto una vocazione, eppure c’è qualche eccezione rappresentata da chi si approccia a questo mondo per tornaconto personale. Pensa che il COVID-19 possa stimolare molti aspiranti dottori a svolgere con passione la Sua professione?
«Leggo che dopo l’11 settembre c’è stato un aumento dei pompieri negli USA e secondo me succederà lo stesso con i medici dopo il COVID. Questa situazione fortifica molto le professioni sanitarie e coloro che svolgono questi mestieri con passione, per cui sono convinto che ci saranno nuove spinte motivazionali: è previsto che tra un decennio ci saranno molti epidemiologi. Vedremo come ci racconteranno nei prossimi anni».