La vera sorpresa delle recenti operazioni di voto per l’elezione del Presidente della Repubblica è stato lo stupore generale nel constatare l’assoluta inconsistenza, l’incapacità e l’infimo livello della classe politica italiana. Ma quale stupore se ormai, da qualche decennio, autorevoli analisti, cittadini attenti, quel che resta dell’informazione libera e, soprattutto, l’astensionismo crescente non fanno altro che denunciare il fallimento dei partiti e dei movimenti rappresentati in Parlamento, non più espressione della volontà popolare e delle sue istanze ma della volontà dei loro leader o, peggio, proprietari?
Il vero scoppio della bolla risale a Mani Pulite, operazione criticabile quanto si vuole ma momento di verità degli interessi economici e degli intrecci affaristici che ebbe il merito di far crollare i castelli di sabbia ormai svuotati da quelli che avrebbero dovuto essere i principali e unici obiettivi per cui erano nati i partiti e che per tanti anni avevano contribuito alla crescita economica e sociale del Paese.
Di qualsiasi fazione, infatti, le forze politiche avevano avuto il pregio, nell’ultimo dopoguerra, di ricostruire l’Italia, di formare la classe dirigente attraverso le scuole di partito, le prime esperienze amministrative territoriali, i congressi locali, provinciali, regionali e nazionali; di essere luoghi di dibattito, di progettualità, di programmazione, l’esatto contrario di quanto avviene ormai da tempo con la politica che è dettata dal leader di turno – nel migliore dei casi – o dai proprietari espressioni di una personalizzazione che rende i parlamentari utili strumenti di una volontà e di interessi di lobby e centri di potere economico.
La recente infelice rappresentazione – che sarebbe meglio non definire politica – del sistema partiti ha confermato lo stato di inconcludenza degli apparati ma, soprattutto, dei loro leader capaci unicamente di indicare figure da bruciare con l’intento preciso di dare segnali anche all’interno dei gruppi di appartenenza e della coalizione. Emblematico il nome della Presidente del Senato incenerito dalla stanza dorata del San Raffaele al grido di niente per me, niente per nessuno e, tanto per completare l’operazione (non quella clinica), un’esortazione al Capo dello Stato uscente di non abbandonare il Quirinale, manovra brillantemente portata a termine da un non politico – almeno formalmente – di nome Mario Draghi, che di fatto, in perfetto stile democristiano-doroteo, ha bypassato tutto e tutti una volta consapevole della debolezza della sua auto-candidatura.
Se esperti opinionisti o pseudo tali desiderano definire ancora il Presidente del Consiglio un tecnico lo facciano pure, certo è che a lavorare con la mediocrità si fa presto a mettere in pratica le proprie capacità strategiche e imparare i trucchi del mestiere.
Inutile, adesso, comporre una pagella come hanno fatto in tanti, un esercizio che non merita una classe politica che non raggiunge neanche la sufficienza. Come farebbe il mio singolare professore di italiano delle superiori il cui merito, oltre alla grande cultura, era quello di partire sempre dal peggio e, in questo caso, superato l’imbarazzo dell’individuazione del pessimo del peggio come amava esordire, possiamo però affermare che il mancato statista Matteo Salvini ha rivelato tutta la sua incapacità politica, sottovalutando la stanza dei bottoni del San Raffaele e gettando nel mucchio una decina di nomi con il solo scopo di dimostrare di tenere i fili dell’operazione per poi dichiarare che l’unica soluzione possibile era Sergio Mattarella. Lo stesso al quale aveva dedicato un post sui social il 31 gennaio del 2015: Mattarella non è il mio Presidente.
Certo, c’è stato chi in tempi più recenti addirittura voleva l’impeachment per poi aizzare l’inquilino del Quirinale sull’altare ma sempre con un occhio rivolto a Casini, che ha applaudito e stretto la mano più d’ogni altro a conclusione della votazione finale di sabato dopo aver fatto il battitore libero scagliandosi contro il sempre più debole Giuseppe Conte.
Fallimento dei partiti e dei movimenti e, conseguentemente, delle coalizioni che non reggono neanche più ai soli fini strategici di convenienza elettorale: c’è da chiedersi se davvero siamo a un punto di svolta, se il penoso epilogo della precaria tenuta del sistema sia tutto da reinventare e se realmente cambieranno gli equilibri stravolgendo il quadro politico attuale, dopo la resa dei conti che certamente avverrà all’interno degli stati generali delle rispettive forze partitiche.
L’uscita ritenuta dai più inopportuna, dato il momento, è apparsa quella di Enrico Letta che, evidentemente, una volta fuori dal gioco del silenzio di marca prodiana certo di non incassare accuse di fallimento di strategia – come riferito dallo stesso Salvini – ha proposto di discutere subito in Parlamento il cambiamento della legge elettorale, fiutando tempi duri nell’imminente futuro.
Ma non sarà certamente una modifica della legge elettorale a trasformare la cenere in materia, una di quelle discutibili operazioni di cui si parla come della diamantificazione delle ceneri umane. Occorre tornare ai fondamentali, all’essenza dei partiti o movimenti che siano. Lo andiamo ribadendo da tempo convinti che la centralità di qualsiasi azione politica sia l’ascolto dei cittadini, dei giovani, il confronto, la discussione dei temi che interessano realmente alla gente: il lavoro, l’occupazione, la sicurezza nei luoghi di lavoro, la scuola, la giustizia, l’ambiente. Una progettualità che riguardi il presente e il futuro che per molti aspetti è già oggi. Perché non sarà il solo PNRR a trasformare la cenere in diamanti.
Già alle prossime elezioni politiche – sempre che la memoria degli elettori funzioni – la resa dei conti, più che avvenire nelle segrete stanze delle direzioni dei partiti, potrebbe avvenire nelle urne. Cosa che ci auguriamo accada.