Lo scorso 22 settembre è uscito nelle sale cinematografiche italiane Don’t Worry Darling, thriller (non horror, diffidate dalle false attribuzioni) diretto da Olivia Wilde, tanto atteso quanto discusso. Presentato fuori concorso alla recente Mostra del Cinema di Venezia, si è aggiudicato il premio gossip a causa delle numerosissime polemiche e indiscrezioni che l’hanno travolto, cominciando dalla scelta del cast alla promozione italiana. Ma il film?
Al di là dello tsunami di rumors, Don’t Worry Darling si può considerare nel complesso una buona pellicola, ben diretta e dalle ottime interpretazioni. Resta tuttavia sulla sufficienza poiché, sebbene il messaggio sia decisamente impegnativo, si poteva fare di più.
Il film è stato distribuito sulla scia di controversie riguardanti, nemmeno a dirlo, la relazione sentimentale venutasi a creare sul set tra la regista e l’attore maschile principale Harry Styles. Relazione che ha spinto la Wilde a mollare su due piedi il marito Jason Sudeikis (creatore e attore della serie tv Ted Lasso), portando un certo scompiglio nel cast.
Si è parlato molto, durante la promozione, di presunte tensioni tra la regista e Florence Pugh, attrice protagonista, mentre la rivista Variety aveva rivelato che Shia LaBeouf – la prima scelta per il ruolo di Jack – era stato licenziato a causa del suo comportamento scorretto sul set. L’attore ha smentito tali affermazioni, dichiarando di aver lasciato volontariamente il film. Una notizia che, tuttavia, ha generato parecchie proteste in quanto LaBeouf è ben noto a Hollywood a causa di varie denunce per violenza, minacce e comportamenti aggressivi. Ma veniamo a noi e ai motivi per cui Don’t Worry Darling ha ricevuto critiche molto contrastanti.
L’unica cosa che ci chiedono è di restare qui, dicono nel trailer. Qui, al cosiddetto Victory Project, dove l’amministratore delegato e guru Frank (Chris Pine) ha creato un vero e proprio paradiso. Una comunità sperimentale idealizzata, situata nel cuore del deserto, dove il tempo sembra essersi fermato a una cittadina statunitense degli anni Cinquanta e i ruoli dei pochi abitanti eletti sono ben prestabiliti: gli uomini vanno a lavoro nelle loro auto sgargianti e le donne sono perfette mogliettine, casalinghe esemplari e sempre esteticamente impeccabili.
È così che si svolge la vita di Alice e Jack, coppia modello di Victory. Tutto fino a quando Alice non inizia a percepire che qualcosa non va, sempre più sospettosa, tra allucinazioni e dubbi. Cos’è davvero il Victory Project? Perché è vietato andare nel deserto? Tutti sembrano far finta di niente ma lei non ci sta ed è intenzionata a scoprire la verità.
Fin da subito è evidente il riferimento a La fabbrica delle mogli, film del 1975 tratto dall’omonimo romanzo del 1972 di Ira Levin e che ha avuto anche un remake nel 2004, La donna perfetta, con Nicole Kidman. Vediamo questa routine apparentemente idilliaca, uomini in un crogiolo di virilità che vanno a guadagnare il pane e poi rientrano nella loro dimora, dove ad attenderli ci sono la tavola imbandita e una moglie bellissima pronta a porgere loro un bicchiere di champagne e a offrire anche altro. Un mondo ovattato e preconfezionato che dà solo l’illusione del benessere.
Primi pregi del film sono, per l’appunto, l’ottima scenografia e fotografia, che ci trascinano in una delle pastellose cittadine americane tipiche del periodo. E, poi, senza neanche bisogno di dirlo, lei: Florence Pugh.
Dopo Midsommar (2019), Piccole donne (2019, per cui ha ottenuto la sua prima candidatura agli Oscar come miglior attrice non protagonista) e i ruoli nel Marvel Cinematic Universe, Florence Pugh si conferma attrice di grande talento, motivo per cui non vediamo l’ora di vederla l’anno prossimo in Dune – Part Two, di Villeneuve. La sua Alice è la pecora nera, è la falla nel sistema, è la donna che parla e fa troppe domande. Non si accontenta che le venga detto di fidarsi e non preoccuparsi, no. Lei vuole capire.
È il caso di dire che il film si regge praticamente su di lei, che asfalta senza troppa difficoltà gli altri attori, compreso l’amatissimo Harry Styles. Visino pulito e tratti fanciulleschi, quest’ultimo se la cava come già se l’era cavata nei precedenti Dunkirk, di Nolan (2017), ed Eternals, di Zhao (2021). Senza infamia e senza lode anche il resto del cast, con Olivia Wilde che interpreta Mary, vicina e migliore amica di Alice.
La Wilde era già ben nota come attrice per una moltitudine di pellicole dal 2004 a oggi, mentre, nella sua carriera di regista, si porta in tasca il suo secondo lungometraggio dopo La rivincita delle sfigate (2019). Con Don’t Worry Darling dimostra di possedere sapienti doti registiche, tra piani stretti e movimenti di camera ben studiati. Ma il lavoro da fare è ancora tanto e il film pecca di presunzione, presentandosi come qualcosa che sa di già visto, a tratti eccessivamente citazionistico.
Sebbene in molti l’abbiano bocciato a prescindere, l’idea di fondo, di un thriller quasi distopico, tra un episodio di Black Mirror e uno di The Handmaid’s Tale, non è affatto male. Le scene di tensione riescono a trasmettere bene quel senso di oppressione e i momenti onirici – i migliori senza dubbio – sono allucinati e inquietanti al punto giusto, così come le musiche. Nota di merito per il tema trattato, quello dell’emancipazione femminile, del patriarcato e del libero arbitrio.
A voi mogli noi uomini chiediamo tanto – viene detto – chiediamo forza, cibo pronto, una casa pulita e discrezione prima di tutto. Discrezione per qualcosa che il film ci svelerà solo alla fine ma che è la stessa discrezione che da sempre – e talvolta tutt’oggi – la società ha imposto alle donne. Obbedire, non dare nell’occhio, non fare troppe domande. Viene raffigurato un periodo storico con una perfezione di pura facciata nel quale la distinzione dei ruoli di genere è ben netta e le donne sono venerate come angeli del focolare. Ma si tratta di una gabbia dorata. Dietro la patina di valore vi è l’assenza di ogni diritto, opportunità, di ogni potere economico e decisionale. La totale devozione verso un marito/padre che sa molto meglio di lei cos’è meglio per lei.
Non è un caso che l’elemento ricorrente delle allucinazioni di Alice sia il riflesso, nei vetri o negli specchi: è la presa di coscienza, il riappropriarsi della propria identità. Nel film ci sono svariati presupposti assai interessanti ed è un peccato che non verranno poi sviscerati, così come le storie e le vicende di alcuni personaggi di cui avremmo voluto (e dovuto) sapere di più. Anche il finale, troppo sbrigativo, rende il colpo di scena poco di impatto. Resta però un messaggio fondamentale: l’importanza di poter scegliere. Poco importa se sarà una scelta giusta o errata, quel che conta è che sia tu a farla, rifuggendo dal dover sottostare a ciò che la società decide per te, facendoti credere, oltretutto, che a te piaccia.