Lunedì 17 ottobre ho avuto il privilegio di poter ascoltare, dallo studio televisivo della trasmissione I Fatti Vostri, le parole di Domenico Merlo, il padre di Michele Merlo. In un primo momento mi ha sopraffatto un grande senso di vuoto, vuoto percepito attraverso le parole di un genitore che ha perso un figlio. Il suo unico figlio. In secondo luogo, da professionista sanitaria, mi ha annientato ascoltare la serie di eventi che hanno condotto a tale esito.
La morte non è sempre ingiusta, parlo per esperienza diretta, ma in questo caso lo è stata. Molte delle domande che mi pongo sul perché io faccia il mio lavoro, l’infermiera di terapia intensiva, ruotano proprio attorno al mondo della morte. L’insegnamento tratto dalla mia esperienza quotidiana mi porta a dire che un professionista sanitario non deve sfidare la morte ma proteggere la qualità di vita. Questo nel rispetto dei valori etici e delle credenze dell’assistito.
Tra le mura di un ospedale, con la morte ci si impara a convivere e nel corso del tempo persino a conoscerla nelle più variopinte delle sue sfaccettature. Morire è parte integrante del vivere ma farlo da ragazzi (o addirittura da bambini) sfida le leggi della natura. L’accettazione è ostica da raggiungere per chi sopravvive a un figlio, nel caso di Michele, di appena 28 anni.
Non mi sento di entrare nel merito della questione giudiziaria che vede coinvolto il medico di base verso il quale Michele Merlo si era rivolto, mostrandogli l’esteso livido sulla coscia sinistra, il sintomo di una malattia che lo avrebbe ucciso da lì a poco tempo, la leucemia fulminante. La difesa della famiglia Merlo attribuisce responsabilità colposa al medico in termini di negligenza e imprudenza. Questi avrebbe dovuto, secondo il legale, avviare il percorso per consentire di formulare la diagnosi. Diagnosi sostanzialmente semplice da effettuare con un emocromo.
L’emocromo è un esame del sangue con il quale viene evidenziata l’eventuale presenza di valori anomali di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. Per leucemia fulminante, si intende un sottotipo di leucemia mieloide acuta che rappresenta il 10-15% di tutti i casi relativi a questo tipo di malattia. La leucemia è un tumore del sangue che, per la maggior parte, origina da una cellula staminale emopoietica. Essa colpisce solitamente i globuli bianchi (le cellule che hanno lo scopo di proteggerci dalle infezioni e che si moltiplicano, normalmente, solo in base alle esigenze dell’organismo). Quando si ha una leucemia, il midollo osseo produce grandi quantità di globuli bianchi che non funzionano correttamente. Inoltre queste cellule prive di controllo impediscono la normale crescita delle altre cellule prodotte dal midollo osseo, ossia globuli rossi e piastrine. Le conseguenze sono insorgenza di infezioni, stanchezza, emorragie. Proprio un’emorragia cerebrale è stata fatale per Michele Merlo.
«Per salvarlo sarebbe bastato un esame del sangue»: queste le parole del signor Domenico. E suonano maledettamente amare alle orecchie di chi sa bene che un semplice emocromo avrebbe davvero potuto sparigliare le carte in tavola. In che modo lo si potrebbe sapere con estrema certezza, premendo un ipotetico tasto rewind che, purtroppo, non esiste.
Domenico Merlo, nel suo intervento, ha ribadito che il figlio non glielo restituirà nessuno e che la sua è una battaglia verso un sistema che, spesso, non funziona. Lui non condanna l’errore umano e lo dimostra il fatto che il suo medico di base sia rimasto lo stesso. L’atteggiamento di convogliare il dolore per la perdita di un figlio verso la lotta per migliorare le lacune di un sistema è ammirevole. Tutta la popolazione dovrebbe farlo perché uno Stato che non si prende cura del proprio sistema sanitario è uno Stato negligente verso il fine ultimo dell’assistenza: l’uomo.
Queste lacune con la pandemia sono emerse maggiormente, senza tuttavia sostanziali modifiche nella pratica e/o cambiamenti radicali verso un’ottica di reale miglioramento. Abbiamo, ad esempio, il fenomeno dell’overcrowding, il sovraffollamento in pronto soccorso che comporta una sproporzione tra la domanda sanitaria, costituita dal numero di pazienti in attesa e in carico, e le risorse disponibili, fisiche e/o umane e/o strutturali necessarie a soddisfare tale domanda. Gli appelli dei professionisti dell’emergenza e urgenza non bastano per ottenere aiuti concreti e sostanziali.
Ausl, sulla vicenda di Michele Merlo, ammette criticità sotto il profilo organizzativo attribuite all’Ospedale di Vergato ma le definisce non di particolare gravità, confermando l’adeguatezza dei processi clinici e assistenziali. Tuttavia, ascoltando questa vicenda, sorge spontanea la domanda: perché un accesso al pronto soccorso è stato differito a un medico di continuità assistenziale? Servizio al quale lo stesso Merlo pare abbia optato di rivolgersi per abbattere i tempi di attesa indefiniti. E come mai non sono stati eseguiti esami ematici in una U.O. di pronto soccorso? Anche considerando le spese, poiché l’ospedale è a tutti gli effetti un’azienda, l’emocromo ha generalmente un costo molto esiguo (tra i 5 e i 10 euro circa). Quindi, perché non effettuarlo?
Dopo la morte di Michele Merlo abbiamo assistito anche allo sciacallaggio complottista del mondo no-vax nei riguardi del suo decesso. Come del resto avviene per molte morti improvvise, strumentalizzate da persone che si definiscono giornalisti. Tutto quanto per un video nel quale Michele si dichiarava favorevole al vaccino anti-Covid e prendeva, bonariamente, in giro il mondo complottista. La sua morte è divenuta strumento di propaganda no-vax nonostante egli non abbia ricevuto alcun tipo di vaccino.
Per concludere vorrei soffermarmi, anche se sembrerà banale, sull’empatia e l’ascolto attivo. Capacità che, spesso, non si ottengono con una laurea. Il disagio di Michele Merlo è infatti passato in sordina. Nessuno è riuscito a interpretare il suo dolore, così come i suoi sintomi.
In generale, in un mondo sempre più tecnologizzato, dove molto spesso la macchina sostituisce la persona e il professionista sanitario diventa un burocrate. bisognerebbe imparare ad acquisire nuovamente il valore della clinica, del contatto diretto e del rapporto umano.