Doctor Sleep non è solo l’adattamento cinematografico del sequel di Shining pubblicato nel 2013. La pellicola di Mike Flanagan è un bizzarro e affascinante oggetto filmico che si pone come crocevia tra due immaginari potenti e ben precisi: quello del romanzo di King del 1977 e quello creato da Kubrick con il suo capolavoro del 1980, tratto appunto dal romanzo del Re del brivido. Doctor Sleep, infatti, riesce a condensarli perfettamente e a distillarne un prodotto che rende conto di entrambi senza snaturarli ma, anzi, rendendo loro giustizia in un modo che potrebbe far felici sia i lettori di King che i cinefili kubrickiani.
Danny Torrance, il bambino che in Shining aveva vissuto delle terribili esperienze all’Overlook Hotel, è diventato un alcoolista, proprio come suo padre. Il bere lo aiuta a reprimere la luccicanza e quindi le visioni delle presenze che ancora lo perseguitano. Contemporaneamente, seguiamo le vicende di Abra Stone (Kyliegh Curran), una ragazzina dai poteri incredibili che sovrastano il pur notevole shining di Danny. Infine, c’è un gruppo di persone che si muove per le strade d’America che sembra una comitiva di innocui hippy. In realtà, si tratta del Nodo, un gruppo di semi-immortali che si ciba del potere, da loro denominato vapore, di bambini e ragazzi dotati della luccicanza. Li fiutano, li rapiscono e poi li uccidono in modo atroce perché il dolore e la paura purificano la qualità del vapore. Si metteranno sulle tracce della piccola Abra e a guidarli sarà Rose Cilindro, una donna spietata e antica – probabilmente è sulla Terra da alcuni secoli –, interpretata da una formidabile Rebecca Ferguson. Queste tre linee narrative saranno destinate a incrociarsi molto presto.
Mike Flanagan, già autore del notevole adattamento di un romanzo di King considerato infilmabile – Il gioco di Gerald (2017) – e soprattutto della bellissima serie Netflix The haunting of Hill house (2018), non ha paura di confrontarsi con un mostro sacro del cinema come Kubrick. Così, nella prima parte di Doctor Sleep ricostruisce filologicamente alcune scene del film del 1980 come ricordi nella mente di Danny. Tornano dunque le famigerate gemelle con il loro inquietante invito a giocare per sempre in loro compagnia e rivediamo soprattutto la donna nella vasca, presenza indimenticabile della famigerata stanza 237, che ancora tormenta il povero Danny. I corridoi dell’Overlook, il bambino sul triciclo, è tutto di nuovo lì, solo ricostruito con una fotografia un po’ più cupa e livida. Ma la riesplorazione e il riadattamento dell’universo kubrickiano e kinghiano non finiscono qui.
I lettori di King sapranno che, mentre nel romanzo originale l’hotel maledetto esplodeva in un’enorme palla di fuoco in cui perdeva la vita anche Jack Torrance, nel film di Kubrick l’albergo restava in piedi e Jack moriva assiderato nel labirinto di siepi. L’Overlook si trova dunque ancora al suo posto nell’universo filmico della pellicola di Flanagan, contiguo a quello di Kubrick, ma il ruolo dei fantasmi e delle presenze diventa centrale e riacquista quel valore narrativo che aveva nel romanzo. L’hotel è chiaramente vivo ed è attirato da coloro che possiedono la luccicanza, proprio come gli spietati membri del Nodo.
Un personaggio che nel romanzo era sopravvissuto e invece nel film del 1980 veniva fatto fuori, inoltre, è il cuoco Dick Halloran, interpretato all’epoca da Scatman Crothers. In Doctor Sleep viene recuperato come presenza ultra-terrena rassicurante, figura ancora mentore di Danny che elargisce preziosi consigli. Soprattutto gli suggerisce come sbarazzarsi delle presenze che lo tormentano, ovvero tramite l’uso di una sorta di immaginazione attiva, processo che ricorda alla lontana una pratica elaborata da Jung tramite la quale era possibile dialogare con le figure che abitano il proprio inconscio per arrivare a una maggiore accettazione, integrazione e realizzazione del proprio sé. È l’utilizzo dell’immaginazione infatti che diventa fondamentale sia per Danny che per noi spettatori che abitiamo spazi filmici diventati reali con la potenza della nostra psiche, così come la luccicanza dona una consistenza fisica vera e propria alle pur labili presenze dell’albergo. Diceva Jung, parafrasando, che ciò che è reale per la psiche produce effetti anche sul mondo fisico. Ed è così che materia e psiche possono diventare un tessuto contiguo nell’universo filmico di Kubrick e in quello letterario di King.
Doctor Sleep diventa allora parte integrante di questo tessuto, o grande arazzo, di cui facciamo parte anche noi come pubblico, non passivo ma attivo. Noi che con la nostra immaginazione contribuiamo alla costruzione di una grande cattedrale immaginativa che trova un suo culmine nell’Overlook, nel guardare dentro e oltre i confini del mondo interiore, in quel paesaggio psichico di cui parla anche Alan Moore, scrittore e acclamato autore di capolavori della nona arte come V for Vendetta e Watchmen, teorizzatore – non il primo, ne parlava già Ian Sinclair – di uno spazio immaginativo che diventa reale grazie alle nostre menti e che definisce psico-geografia. Qualcosa di simile all’inconscio collettivo di Jung o, se vogliamo, al mondo delle idee archetipiche di Platone. In tale spazio condiviso è possibile immergersi alla ricerca di pesci piccoli, pensieri banali, oppure in cerca di balene, le grosse idee che sono più rare. Flanagan ha pescato nello spazio psico-attivo di Kubrick e King e ne ha ricavato qualcosa di originale.
Non diciamo come e perché ma nella parte finale della pellicola i personaggi finiranno di nuovo all’Overlook Hotel, l’albergo ormai abbandonato nella neve dopo i fatti cruenti di quasi quatant’anni prima. Quando entriamo effettivamente lì dentro non si tratta solo di Danny che torna sul luogo del delitto, ma anche di noi spettatori che rientriamo magicamente in un territorio fondamentale del nostro immaginario cinematografico. L’imponente hotel ammuffito dal tempo, con i suoi saloni, corridoi, la sua scalinata – sulla quale Jack Nicholson/Torrance minacciava Wendy/Shelley Duvall –, diventa un’immensa cattedrale in cui sono conservati i ricordi cinematografici di cui si è nutrita tanta della nostra immaginazione.
Non si tratta in questo caso di uno sterile citazionismo ma di un’operazione che, almeno in parte, ricorda la ricostruzione filologica che Gus Van Sant operò nel 1999 dello Psycho di Hitchcock. Ma se la pellicola di Van Sant si proponeva come una fredda vivisezione chirurgica del film di Hitch, inquadratura per inquadratura, qui c’è tutta la gioia, puramente ludica, di esplorare nuovamente un mondo terrificante che però conosciamo molto bene e scoprirne gli interstizi nascosti, gli angoli ancora bui e inediti. Danny si riaccosta di nuovo alla porta del bagno spaccata quarant’anni prima dall’ascia di Jack, porta su cui è scritto ancora Redrum col sangue di un Danny bambino. Si riaffaccia da quello squarcio a scoprire i luoghi del suo passato e così noi spettatori ci riaffacciamo con lui nei luoghi della nostra memoria cinefila, negli schedari e nei cassetti della nostra mente.
Non è un caso che schedari e cassetti siano il modo in cui il regista mostra visivamente la mente di alcuni protagonisti in qualche scena di intrusione mentale. Invece la psiche di un personaggio vetusto come Rose Cilindro, che ha attraversato secoli di storia, è rappresentata come un’enorme cattedrale in cui sono conservate le memorie di secoli di esperienze. Ecco che torna il paragone con l’Overlook come cattedrale di ricordi, sia personali, di Danny, sia collettivi, di noi spettatori incalliti. Ecco dunque ancora quell’enorme geografia mentale di cui parlavamo, rappresentata qui in modo simbolicamente vivo e potente.
Flanagan mantiene saggiamente un tono grave e serio, fedele al libro di King, senza scadere nei soliti macchiettismi o in momenti dalla battuta facile che sembrano caratterizzare molti horror per teenager. Visivamente riesce a rendere i viaggi astrali di alcuni personaggi in modo semplice ma efficace, con effetti congrui alla materia trattata, senza mai strabordare. La musica risuona degli stessi toni cupi degli indimenticabili spartiti dello Shining di Kubrick, in particolare quello di Wendy Carlos e Rachel Elkind, che caratterizzava i titoli di testa della pellicola del 1980. Ne ascoltiamo un primo accenno all’inizio, sul logo della Warner Bros, ripresentato come era all’epoca. In seguito, lo riascolteremo ovviamente nel momento in cui ripercorreremo le strade che portano all’Overlook. Anche il formato dell’immagine è lo stesso col quale Kubrick girò Shining, ovvero un rapporto 1.85:1, cioè un formato sempre rettangolare ma non proprio panoramico come il cinemascope.
L’interpretazione di Ewan McGregor nel ruolo del tormentato Danny è assolutamente convincente e intensa. Del resto, non avevamo dubbi, conoscendo la variegata gamma interpretativa di questo attore scozzese di gran classe, indimenticabile Mark Renton di Trainspotting (1996), giovane Obi Wan Kenobi nella trilogia prequel di Star Wars (1999-2005), nonché scrittore fallito e ancora tormentato, ma canterino, in Moulin Rouge (2001).
L’anno scorso c’è stato un altro autore che ha realizzato una splendida incursione nello spazio filmico dello Shining kubrickiano e cioè Spielberg che, con il suo Ready Player One, ha reso omaggio alla pellicola con una scena spassosissima in cui i personaggi dovevano affrontare le presenze dell’Overlook Hotel come in un videogioco. Tutto questo all’interno di un film che, della citazione di un intero universo pop anni Ottanta, ha fatto la sua ragione di esistere. Shining diventa così un cul de sac del nostro immaginario dal quale sembra che non siamo mai venuti fuori. Ma vogliamo davvero farlo?