Come di consueto quando si tratta di diritti civili, l’Italia è stato uno degli ultimi Stati europei a istituire il divorzio. In effetti, se n’era iniziato a parlare all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, ma fu solo nel 1970 che lo scioglimento del matrimonio venne tradotto in legge per poi ottenere il consenso popolare con il referendum abrogativo del 1974. Il lungo periodo di tempo intercorso tra il primo cenno al divorzio e la sua approvazione è un dettaglio estremamente indicativo sulla situazione dell’Italia postbellica e sul sentiero tortuoso che questo importante tema intraprese prima di giungere al consenso. Per comprendere le ragioni di un tale lasso temporale, quindi, è necessario analizzare il contesto storico, politico, ma soprattutto sociale che caratterizzava l’Italia in quegli anni e che condusse il divorzio da una cattolica bocciatura alla sua liberale approvazione.
Il tema della famiglia irruppe sulla scena pubblica nell’ottobre del 1946, quando se ne intavolò la discussione all’interno dell’Assemblea Costituente. Che apparisse nell’assemblea non significa necessariamente che quello del divorzio fosse un argomento particolarmente caro agli italiani. Anzi, in realtà, non era affatto così: più che altro si trattava di un tema già affrontato e, per così dire, risolto in altri Stati europei. In Paesi come Francia e Spagna il divorzio era, infatti, già legale. Mentre in Italia la presenza della Chiesa, che però deteneva il potere di concedere l’annullamento, impediva allo Stato di disporre di uno strumento simile per concedere la separazione dei coniugi. E quando il dibattito ebbe inizio il panorama economico e sociale della penisola era il meno adatto a un cambiamento di portata tanto massiccia.
Già in situazioni di normalità, il nucleo familiare è considerato la molecola di base della società, il fondamento da cui si origina la società civile. Parlare di frammentarlo ulteriormente, dopo i disastri bellici che avevano già corroso la collettività e separato le famiglie, risultava un vero azzardo. Un azzardo che costò molti anni inconcludenti prima di raggiungere una soluzione. In ogni caso, la discussione sulla famiglia iniziò il 30 ottobre 1946 nella I Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, all’interno della quale i due gruppi principali erano la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista.
La proposta cattolica presentava un’idea di famiglia molto simile a quella promossa durante il periodo fascista: il punto centrale era il vincolo naturale e indissolubile che lega i coniugi. Lo Stato poteva sancire l’uguaglianza morale e giuridica dei consorti, fermo restando che la patria potestà dei figli spettava naturalmente solo al padre. Andava certo respinto l’istituto retrogrado dell’autorizzazione maritale poiché le donne avevano conquistato a pieno titolo il diritto di cittadinanza, tuttavia l’unico vero capo della famiglia doveva essere sempre e solo il padre. Secondo tale proposta, allora, il nucleo familiare compariva come baluardo della tradizione patriarcale troppo simile al Ventennio.
La proposta comunista, invece, sebbene guardasse alle famiglie distrutte dalla guerra come al punto di partenza per la ricomposizione sociale del Paese, sovvertiva le anacronistiche gerarchie del codice fascista e voleva una famiglia riformata che non richiedesse alle donne di essere soggette all’uomo. L’idea portante era l’affermazione di principi di parità e uguaglianza. Le donne potevano, finalmente, esercitare il diritto di voto, avere il diritto al lavoro, che le rendeva più autonome e meno dipendenti dal marito, nonché essere libere di autorealizzarsi anche al di fuori dei tradizionali ruoli di madre e moglie.
Ci sarebbero voluti trent’anni, però, prima che i programmi del PCI fossero accolti nella riforma del diritto di famiglia perché per realizzare un progetto tanto ambizioso era necessario risollevare la donna dalla condizione di inferiorità. E l’Italia del 1946 non era in alcun modo pronta, a livello economico quanto sociale, ad affrontare un simile mutamento. Fu un radicale cambiamento del contesto sociale, allora, a portare all’assenso degli anni Settanta grazie all’influenza di due fattori.
Il primo aveva origine dall’idea comunista secondo la quale bisognava emancipare le donne dal loro stato di assoggettamento. Fu proprio Togliatti, infatti, a incoraggiare politiche a favore della questione femminile, attraverso la creazione dell’Unione Donne Italiane, la prima organizzazione femminile di massa aperta a donne di qualunque partito e fede, e creando spazi autonomi all’interno del partito stesso dedicati solo alle donne con l’obiettivo di rieducare loro e la società in generale a nuove posizioni e ruoli che prima sembravano impensabili. In questo modo si posero le basi per cui la divisione del nucleo familiare non era più impraticabile.
Ma gli eventi che davvero mutarono il pensiero italiano – che non ebbero troppo a che fare con il divorzio ma di cui esso subì le conseguenze – furono i moti del ’68. Proprio in quell’anno, la proposta di legge si fece più concreta, ma fu il quadro politico in cui era immerso il Paese a fare la sua parte, profondamente segnato dai movimenti collettivi che misero in discussione l’ordine esistente, mostrando insofferenza per le condizioni del proletariato urbano, degli operai di massa. Nelle loro proteste echeggiavano anche il femminismo, di cui nacque il movimento, e un profondo attacco alle istituzioni. Dalla Chiesa alla famiglia, quindi, fu il rifiuto della rigidità di quelle antiche strutture, unite alla crescita economica del decennio, ad aprire un varco per una società più aperta, meno bigotta e decisamente più liberale nei confronti della questione femminile e della libertà al di là delle forme istituzionali.
Fu a partire da questo nuovo contesto, dunque, che il primo dicembre 1970 la proposta Fortuna-Baslini divenne la Legge 898. Una legge – poi approvata dal consenso popolare con il referendum del ’74 – che cambiò il volto dell’Italia e diede il via all’apertura a nuovi diritti civili.