Clotilde, terrestre, storica dell’arte. Freelance (non per scelta), corre da un lato all’altro di Roma per recuperare i soldi dell’affitto. La sua vita è un turbinio costante di articoli e progetti non pagati – si sa, nel settore culturale ci vuole la passione – correzioni di bozze notturne e allestimenti di mostre contemporanee (sempre non pagate). Nel frattempo, un comitato interspaziale sta decidendo le sorti dell’umanità analizzando le canzoni di David Bowie, Fabrizio De André, i Queen o i Cure.
Distopia Pop (Alessandro Polidoro Editore), il nuovo libro di Francesca Guercio, racconta di una donna senza certezze né futuro, intrappolata in una serie di relazioni umane precarie proprio come il suo lavoro. Mentre marziani e venusiani cercano di capire il senso dell’arte terrestre e valutare se sia abbastanza per salvare un intero pianeta, sulla Terra quella stessa cultura avvizzisce, compressa e svilita da tagli costanti, riforme neoliberali e meccaniche servilistiche.
Lavoro. Sostantivo singolare soggetto a ricerca, devianze, sfruttamento, menzogna. La più equivoca delle quali è espressa con formule assai frequenti come “non c’è lavoro” o “non si trova lavoro”. Pettegolezzi! Per quanto mi riguarda, di lavoro ne ho sempre trovato a iosa. Quello che sembra invece pressoché irreperibile sono i soldi per retribuirlo.
Che cosa hanno in comune un drammaturgo, un traduttore, un tecnico di festival, un manager museale e un attore? Secondo l’Unesco, tutti si occupano di cultura. Le stime ci dicono che le industrie culturali, quelle creative e il patrimonio storico-artistico valgono in Italia un valore di 95 miliardi di euro l’anno, ai quali ne vanno aggiunti altri 169, per la capacità di questi stessi settori di “attivarne” di contigui, per un totale di circa 265 miliardi.
Insomma, nel sistema produttivo culturale e creativo italiano sono impiegati ben 1.5 milioni di persone. Eppure, non ci riusciamo proprio a considerarlo un settore come gli altri. No, la cultura resta nel sentore comune un gradevole passatempo, qualcosa da coltivare per il puro gusto di farlo: non è una cosa seria. Prima o poi bisognerà posare il pennello o la chitarra e trovarsi un lavoro vero, uno di quelli per cui servono la cravatta e la camicia, non il dolcevita nero e gli occhiali rotondi.
E per chi invece ci resta, per chi non abbandona la cultura e resiste all’ordine di crescere un po’, allora il destino è segnato. Potrà essere etichettato come un giocherellone, un simpatico intrattenitore, un idealista o un sognatore, ma mai come un lavoratore. E, piano piano, comincerà anche a convincersene. Già, anche all’interno del settore la mentalità più diffusa è che per resistere ci vogliono passione, vocazione, emozione. Il che suona molto meglio di compensi, diritti e minimi salariali.
Dopo la laurea ho sgobbato gratis per anni in un mucchio di contesti diversi. Università, redazioni di riviste, istituti di cultura. Uno dei miei tanti capi spesso ripeteva a me e al resto dello staff che eravamo fortunati per l’opportunità di formarci presso un’istituzione prestigiosa come quella diretta da lui «senza dover pagare». Testuale! Né ironico, né feroce. Asseverativo, piuttosto.
In tutti i settori esiste l’idea della gavetta, una lunga serie di umiliazioni che prima o poi porterà alla gratificazione lavorativa. Nel settore artistico-culturale, però, questa gavetta tende a essere infinita e a impedire totalmente ai lavoratori di programmarsi il loro futuro. Discontinuità e flessibilità sono diventate la normalità e gli stessi lavoratori sono portati ad accettare orari massacranti, compensi irrisori e condizioni lavorative indegne. Per sopravvivere, circa la metà dei lavoratori impiegati nel settore artistico-culturale svolge un’attività parallela.
Come scrive Bertram Niessen, sono i lavoratori dei settori creativi e culturali quelli che hanno iniziato a vivere inseguendo un sogno di realizzazione personale in un costante equilibrismo tra la ricerca dell’autenticità (…) e l’iper-precarizzazione delle condizioni lavorative e di vita. Ma come è successo? Da un lato, il capitalismo e le sue promesse disattese, la contrazione dei sistemi di welfare e la finanziarizzazione dei processi produttivi hanno fatto terra bruciata attorno al mondo della cultura. Dall’altro, il mercato ha cominciato a urlare a gran voce un’unica parola: flessibilità.
Tutte le riforme fatte sono state improntate ai margini di eccessiva “rigidità” del mondo lavorativo, ovvero: la protezione contro i licenziamenti, i sussidi di disoccupazione, il ruolo dei sindacati, la contrattazione collettiva dei salari. Quindi, senza un ruolo sociale né professionale, i lavoratori culturali – e non solo – sono stati esposti all’isolamento e alla frammentazione e resi incapaci di rivedersi in una condizione collettiva.
Questa perdita di senso di appartenenza è coincisa con la perdita del ruolo sociale degli intellettuali: un tempo, artisti e uomini di cultura potevano essere scintille di rivoluzione o ispiratori di profondi mutamenti culturali. Avevano un ruolo preciso nel tessuto sociale, quello degli innovatori. Di colpo, quel ruolo è passato ad altri e gli intellettuali sono stati esclusi dal mondo politico e mediatico. Da allora, si sono chiusi nei loro salotti – o, attualmente, nei loro baretti alternativi pieni di libri usati e macchie di caffè – incapaci di influenzare il mondo che li circonda.
Tutto questo impianto dà l’assist alle istituzioni per operare tagli e mutilazioni, e concedere sempre meno risorse a un settore già agonizzante.
– Ma secondo tua moglie questi terrestri… insomma, via, saranno loro quelli destinati al taglio per la salvezza del Cosmo?
– Non credo che ci siano dubbi, ormai. Hai letto le ultime agenzie? I report dagli altri pianeti sembrano indicare un barlume di comprensione, un impegno al cambiamento. I terrestri umani invece sono completamente senza speranza: impermeabili a ogni segnale. Anche davanti ai più violenti richiami dall’Ordine Cosmico continuano a comportarsi come hanno sempre fatto.
– Però mi dispiace. Sono goffi. Comici. Mi stanno simpatici.
Distopia Pop, per raccontare la crisi, arriva all’assurdo: a un gruppo di ricercatori alieni viene dato il compito di analizzare una fetta della produzione culturale terrestre. Inizia così un dottorato di ricerca extraterrestre perché lo scopo degli umani sembrerebbe essere l’arte e va compresa prima di cancellarli definitivamente. Ma proprio quando sembra che marziani e venusiani stiano per capirci qualcosa, per essere coinvolti da quelle strane abitudini umane, cominciano i tagli.
Ai piani alti nessuno sembra davvero interessato al loro compito, il personale viene rimosso, i fascicoli non vengono letti. Lo sconforto prende anche loro, sì, gli alieni. Si sentono inutili: sanno che la decisione è già presa. A nulla vale ciò che hanno scoperto sulla natura umana, sull’amore o su loro stessi. Nulla vale la vita complessa e affaccendata di Clotilde, che forse aveva trovato per una volta un minimo di stabilità. Non valgono i legami, la poesia o il teatro. Il destino dell’umanità è la cancellazione, non c’è modo di salvare nessuno. L’arte e la cultura non hanno possibilità di riscatto sulla Terra né nello spazio.