Ancora una volta, la categoria che non è stata quasi per niente inclusa nelle recenti disposizioni governative è quella degli under 30, in particolare degli studenti, dunque di tutti coloro che frequentano università, accademie e istituti simili o di quanti sono in procinto di affacciarsi al mondo del lavoro. A essere precisi, i più giovani sono stati oggetto di interventi complessivi che hanno riguardato, ad esempio, la chiusura degli spazi universitari, che non significa soltanto chiudere le aree ove si svolgono le lezioni, ma anche biblioteche, aule studio, ambienti associativi e via discorrendo. Sia chiaro: si tratta di misure sacrosante che mirano a evitare situazioni di sovraffollamento e che, soprattutto, implicano soluzioni alternative concrete come la didattica a distanza e le lezioni da remoto. Tuttavia, non fa mai male ricordare che, se in questi anni si fosse deciso di investire sull’istruzione e sulla cultura, probabilmente avremmo evitato le cosiddette classi pollaio, non avremmo avuto edifici decadenti e, forse, avremmo potuto usufruirne in modo sicuro. Ciononostante non è questo, oggi, il peggiore dei mali: per quanto per gli studenti possa essere avvilente, per fortuna la loro situazione non è paragonabile a quella di chi da questa crisi sta subendo – anche – gravi danni economici.
Diverso, invece, è il caso di chi doveva svolgere test e concorsi che, come noto, sono stati sospesi e saranno rinviati a data da destinarsi. Un po’ come se si trattasse di una partita di calcio o di una fiera di macchine d’epoca, quando invece siamo di fronte al futuro di centinaia di migliaia di ragazzi che aspettano questa o quella selezione come l’occasione per misurarsi, per entrare in un mondo meno ovattato di quello scolastico o universitario e per avere – se tutto va bene – un’occupazione. La ratio alla base è sempre la stessa ed è più che comprensibile, ossia quella di evitare che troppe persone entrino a contatto tra loro. Sarebbe, però, confortante se i decisori politici dedicassero almeno un po’ più di attenzione al tema, anche solo per mostrarsi empatici verso chi un domani andrà a ricoprire funzioni di pubblico servizio.
In questo mirabolante quadro, una situazione che ha davvero del paradossale è quella che riguarda l’Esame di Stato per l’abilitazione di avvocato: parliamo di un esame al quale ogni anno partecipano decine di migliaia di giuristi, che prevede tre prove scritte – che si svolgono puntualmente nel mese di dicembre – e, se superate, una prova orale, che generalmente si svolge a quasi un anno di distanza da quella scritta. A un mese dalla prova del 2020, dunque, i candidati hanno saputo solamente nella giornata di venerdì scorso che questa verrà rinviata, presumibilmente alla prossima primavera, e che gli orali previsti per chi è risultato idoneo agli scritti del 2019 si svolgeranno comunque di presenza in queste settimane. Tutto ciò è stato affidato a un post Facebook del Ministro Bonafede, che da mesi non faceva sapere nulla, e alle parole del Sottosegretario Andrea Giorgis, il quale in Commissione Giustizia ha giustificato la scelta facendo appello alla qualità che l’esame di abilitazione intende preservare.
Ciò che rende il provvedimento discriminatorio ai nostri occhi è l’evidente disparità di trattamento rispetto a quanto è stato previsto in questi mesi per altri ordini e professioni: durante il primo lockdown, infatti, l’esecutivo ha scelto di rendere abilitante la laurea in Medicina a cui ha fatto seguito, a metà ottobre, il ddl che ha trasformato in abilitanti anche le lauree in Farmacia, Veterinaria, Odontoiatria e Psicologia. A ciò si aggiunge la decisione eccezionale, presa dal Ministro dell’Università Manfredi, di far svolgere un’unica prova orale a distanza, data la situazione epidemiologica, valida per l’accesso a numerose professioni. A eccezione di quella di avvocato, si intende.
Considerando che su quest’ultima ha competenza esclusiva il Ministero di via Arenula, è inspiegabile per quale motivo non si vogliano adottare gli stessi criteri previsti per le altre professioni ed è ancora più incomprensibile perché il Guardasigilli non voglia approfittare della situazione per riformare in toto le modalità di svolgimento dell’esame. L’abilitazione per entrare nell’ordine forense, infatti, rimane una delle più lunghe e macchinose, il cui procedimento poteva considerarsi concepibile sino a diversi decenni fa, quando diventare avvocato voleva dire onore, sicurezza e stabilità, ma non oggi, visto che in alcuni casi chi prende l’abilitazione decide poi di non svolgere la professione. Il Ministro Bonafede conosce molto bene queste cose, da avvocato qual è, e ci auguriamo che ci metta mano al più presto. Senza dimenticare l’importante funzione sociale che l’attività forense svolge da sempre.