Che in Italia i diritti dei lavoratori siano scarsamente tutelati non è certamente una stravagante novità. Il nostro è quel paese in cui è normale che un cassiere sia pagato due euro e mezzo l’ora, l’impiegato di un call center sfiori i quattro euro e un giornalista laureato e con esperienza possa aspirare ai tre. Non ci sorprendiamo neanche più di queste cifre vergognose che permettono a qualcosa che ha tutte le sembianze dell’abuso di essere chiamato lavoro, sebbene non sia regolato da alcuna tutela. E, come sempre, ad andarci peggio sono i ragazzi, vittime dello sfruttamento legalizzato che stage e tirocini rappresentano e quotidianamente inghiottiti da quella disoccupazione giovanile che in Italia pare irrimediabile.
Ciò che ai giovani è frequentemente richiesto è l’esperienza. È certamente giusto che essa sia un requisito fondamentale per diventare competitivi sul mercato del lavoro ed è altrettanto giusto che i compensi possano variare a seconda di quanta ne è stata maturata nel tempo. Risulta ingiusto, però, che essa legittimi lavori sottopagati o, addirittura, non pagati. È pratica comune, infatti, offrire l’esperienza come unico compenso a ragazzi immersi in un mondo in cui, se sprovvisti di quest’ultima, non possono sperare di trovare un impiego, sono un peso per le aziende perché vanno prima formati, non dimostrano di voler lavorare. È questa la narrazione ricorrente nei confronti di giovani e lavoro, forse l’aspetto più catastrofico della disoccupazione giovanile: quel requisito, certamente fondamentale per svolgere al meglio le proprie mansioni ma che è normale non avere all’inizio, smette di essere motivo per le aziende di investire sulla formazione di nuove risorse e diventa fin troppo spesso una giustificazione per le condizioni in cui verte il mercato del lavoro al giorno d’oggi.
Emblema di tale pratica sono gli stage o i tirocini. Che siano curriculari o extracurriculari, di fatto, in Italia sono sfruttamento legalizzato. Il concetto di tirocinio formativo non è di per sé sbagliato, sebbene ogni lavoro andrebbe adeguatamente ricompensato e lo scarso rimborso spese previsto da queste parti abbia delle lacune che andrebbero colmate. Ma il reale problema nasce nel momento in cui il tirocinio non rappresenta un’opportunità di formazione, nonché un trampolino di lancio, per poi essere assunti o ben accolti nel mondo del lavoro, ma una semplice giustificazione per ottenere manodopera a basso costo.
Sono fin troppi gli esempi di ragazzi che accumulano stage e tirocini mal pagati o, addirittura non pagati, lavori di pochi mesi senza alcuna garanzia per il futuro che si susseguono uno dopo l’altro senza permettere alle nuove generazioni di raggiungere l’adeguata stabilità economica. E questa situazione di precarietà sembra il destino di tutti coloro che escono dalle università o dai corsi di formazione e sanno che i loro sforzi non sono valsi un contratto adeguatamente valido.
Quella che viene venduta come un’opportunità, infatti, in realtà, raramente si rivela veritiera: in tre casi su quattro, i tirocinanti non vengono assunti dall’azienda per la quale hanno lavorato a basso costo (o a zero) per formarsi. Talvolta, è semplice rendersi conto dell’intenzione del datore di lavoro: quando l’annuncio riguarda la ricerca di un tirocinante con esperienza, l’inganno risulta evidente poiché è chiaro che non si cerchi qualcuno da formare per poi assumere, ma qualcuno di già preparato da sfruttare con un compenso minimo grazie alla qualifica di tirocinante che gli si conferisce. Altre volte, però, risulta meno evidente. In ogni caso l’occupazione giovanile è così bassa che spesso i giovani sono disposti ad accettare stage su stage pur di tentare, pur di avere un’opportunità, anche se significa lavorare per poco o niente.
La situazione italiana è in continuo peggioramento. Già prima che la pandemia rendesse il mercato del lavoro ancora più inospitale, l’Italia era il penultimo paese OCSE in quanto a occupazione giovanile. Secondo solo alla Spagna, il nostro paese ha una disoccupazione in continuo aumento che a oggi riguarda il 33% dei giovani non studenti. Nei 37 Stati OCSE, la media riguarda il 13.3% e si presenta come costantemente – seppur lentamente – in calo. In Italia, invece, la disoccupazione giovanile è in crescita.
Per arginare l’abuso dello strumento dello stage, andrebbe limitato il numero massimo di tirocini di cui ogni azienda può disporre, in modo da rendere necessaria l’assunzione. Una proposta di legge di questo tipo è stata fatta negli ultimi anni, ma è rimasta ovviamente inascoltata poiché troppo comodo per i datori di lavoro continuare a offrire precarietà in cambio di esperienza. Indubbiamente, una prima regolamentazione renderebbe più difficile lo sfruttamento perpetrato in modo del tutto legalizzato, ma un vero cambiamento si avrà solamente quando non sarà consentito formare i giovani con costi tanto bassi.
In fondo, il tirocinio, la precarietà e anche lo scarso rimborso spese previsto sono opportunità di formazione che solo i ragazzi provenienti da un contesto di ricchezza possono permettersi. Non è soltanto l’impossibilità di raggiungere l’indipendenza il problema, ma anche l’impossibilità per molti di avere accesso a quelle stesse occasioni di formazione e di esperienza da inserire nel curriculum. Le opportunità di successo, allora, aumentano esponenzialmente se si proviene da ambienti benestanti, poiché ci si può permettere di lavorare gratis per anni, accumulare esperienze nel proprio campo e raggiungere qualche traguardo. Non accade lo stesso, invece, per chi non può gravare a lungo sulle finanze della famiglia d’origine: le opportunità di successo nella vita, dunque, sono direttamente proporzionali alla ricchezza di partenza.
La situazione di precarietà imposta ai giovani presenta, inevitabilmente, numerose catastrofiche conseguenze. La più evidente è quella che sembra il più grande problema dell’Italia: la bassa natalità. In un paese vecchio come il nostro, in cui la natalità pare la più grave piaga sociale, certamente lasciare i ragazzi in condizioni di instabilità economica non rappresenta un’ottima strategia per incentivarli a mettere su famiglia. Ma, oltre alle conseguenze sociali, quelle individuali non sono meno gravi. La precarietà e il senso di mancata realizzazione sono le principali cause di depressione e stati d’ansia, sempre in aumento.
Un giovane precario non ha effettivo controllo della sua vita poiché non ha alcuna sicurezza nel tempo riguardo i suoi guadagni. Essere totalmente privi di potere nei confronti della propria esistenza, della realizzazione dei propri desideri e del proprio posizionamento sociale, non comporta solo problemi economici, mancanza di indipendenza e aumento del peso delle responsabilità sulle generazioni più vecchie. Comporta anche e inevitabilmente un senso di smarrimento, di inadeguatezza e di impotenza che non può che peggiorare ulteriormente la già grave situazione.