Giulio Gallera lascia il Pirellone. Dopo tanta attesa è ora ufficiale: finalmente, l’Assessore al Welfare e alla Salute della Regione Lombardia è fuori dai giochi di palazzo. Ad anticiparlo nei giorni scorsi e senza dispiacersi poi tanto, è stato Matteo Salvini, il solo che, complice l’inadeguatezza dei suoi, è sembrato accreditato a parlare della vicenda. Non pervenuti, invece, il diretto interessato e il Presidente Attilio Fontana, riapparsi timidamente ieri a sipario ormai calato.
A convincere i vertici della Lega al rimpasto – perché quella di Gallera non è l’unica poltrona a essere saltata – è stato il ritardo nella somministrazione dei vaccini, soltanto l’ultima delle polemiche che, da mesi, investono il già disdicevole operato della giunta lombarda. Dal V-Day a oggi, infatti, sono state somministrate appena 34465 dosi, vale a dire il 22.4% del totale. Una media estremamente bassa che relega la regione al penultimo posto in Italia, seguita soltanto dalla Calabria. E non è un caso, forse, che siano entrambe in mano al peggior centrodestra. A fare specie, però, sono due fattori in particolare: il primo è che la Lombardia è stata a lungo il cuore della pandemia nel nostro Paese, quella da cui tutto ha avuto inizio e che ancora fatica a venirne fuori. Il secondo è che, per antonomasia, il suo è il sistema sanitario più stabile dello Stivale, di certo affatto paragonabile a quello calabro per strutture, disponibilità economica e di personale. Perché, quindi, si procede così a rilento?
Stando alla versione ufficiale di Giulio Gallera, la campagna vaccinale in regione è partita soltanto il 4 gennaio – otto giorni dopo il fatidico 27 dicembre, data di inizio delle immunizzazioni nell’intera Europa – perché, a suo avviso, non era giusto richiamare gli operatori sanitari finalmente in ferie. Come se da Natale, in Lombardia, ogni studio o presidio medico e ospedaliero avesse chiuso i battenti per godersi le festività. Ovviamente, non è stato così. Persino in quella che a lungo abbiamo tristemente definito la Wuhan di Italia, Bergamo, i primi destinatari del vaccino hanno atteso che qualcuno se ne ricordasse, che gli eroi in corsia tornassero a essere visibili, quindi tutelati da un male che ne ha cambiato per sempre la vita. Perché loro, al contrario della politica, di vacanze quest’anno non ne hanno mai avute. Le bare, quelle che hanno sfilato per la città in cerca di terra sufficiente a seppellirle, le hanno contate tutte. Una a una.
Meno bravo con i conti, invece, si è riconfermato l’Assessore uscente: secondo Gallera, infatti, dal 4 al 10 gennaio, «si prevede una capacità di somministrazione iniziale fino a un massimo di 10mila dosi al giorno, che potrà essere successivamente incrementata fino a 15mila». Come fanno notare i colleghi de Il Post, però, stando a questi calcoli – immaginando generosamente che fin da subito si somministrino le 15mila dosi – e considerando che a ogni persona ne occorrono due, si arriverebbe a 2 milioni 750mila vaccinati su una popolazione di 10 milioni di abitanti. Per ottenere l’immunizzazione di gregge, invece, occorrerebbe che i primi si attestassero tra i 6 e gli 8 milioni. Un risultato raggiungibile soltanto alla fine del 2022.
Sin dall’inizio della pandemia, la Lombardia è stata sotto i riflettori per i numeri drammatici che ne hanno riscritto la storia. Quella che sembrava una terra invincibile si è di colpo mostrata in tutta la sua fragilità, vittima di un operato istituzionale che è parso difettoso sin dalle prime battute e a cui, tuttavia, nonostante il rimpasto, non sono state tributate sufficienti colpe. Dalla mancata dichiarazione di zona rossa – a lungo al centro di un imbarazzante scaricabarile, ormai vera e propria inchiesta messa volutamente a tacere – passando per i tristi siparietti di Fontana e Gallera, fino al conto svizzero del governatore, quello che a lungo è stato il modello lombardo si è rivelato non un’eccellenza, bensì un fallimento su tutta la linea.
La gestione del contagio, l’accrescersi degli ammalati, la fuga di notizie, gli orrori delle RSA, le sfilate dei camion militari, le fabbriche mai chiuse, i tamponi negati sono soltanto alcuni dei momenti più gravi di una mala gestione che a tutti – e da subito – è parsa seria ed evidente, finendo con l’essere tacciati di anti-lombardismo. Un sentimento inesistente, creato ad hoc per giustificare accenni di inchiesta e messa in discussione con il solo obiettivo di difendere l’indifendibile: quel Pirellone che oggi si rifà il trucco ma che, in sostanza, resta invariato. Soprattutto se a tornare in auge è una certa Letizia Moratti, un volto affatto nuovo ai milanesi e alla Corte dei Conti.
Il sostituto di Gallera, infatti, sarà proprio lei, l’ex Prima Cittadina, oggi Presidente dimissionario di UBI Banca, fedelissima di Silvio Berlusconi sin dalla sua ascesa nel ’94 in qualità di Presidente RAI, poi di Ministro dell’Istruzione (2001-2006), infine di Sindaco meneghino (2006-2011). Ed è proprio per la sua esperienza a Palazzo Marino che varrebbe la pena valutare la nomina di ieri. Nel suo curriculum, infatti, Letizia Moratti può orgogliosamente fregiarsi, insieme ad altri della sua giunta, di una condanna per danno erariale provocato alle casse del Comune di Milano per un totale di 1 milione 82mila euro. Una vicenda che le cronache ricordano come consulenze d’oro e per la quale la Prima Cittadina era stata condannata a versare, da sola, un risarcimento pari a oltre 591mila euro, colpevole – secondo i giudici – di aver assegnato incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione milanese, ma anche di aver istituito un ufficio stampa alle sue dirette dipendenze per una spesa di 887mila euro.
Moratti – si legge nella sentenza – avrebbe avuto il connotato della grave colpevolezza, ravvisabile in uno scriteriato agire, improntato ad assoluto disinteresse dell’interesse pubblico alla legalità e alla economicità dell’espletamento della funzione di indirizzo politico-amministrativo spettante all’organo di vertice comunale. La stessa torna, oggi, proprio in quelle strade, e in quei palazzi, addirittura promossa a Vicepresidente di Regione.
Su queste pagine – e non solo – la necessità di rimuovere Giulio Gallera dal suo incarico è stata ribadita a più riprese, proprio da quel marzo che ora sembra lontano e di cui, invece, si continuano a pagare le conseguenze. Eppure, come allora, anche adesso che l’inadeguato Assessore è stato rimpiazzato, la sensazione che si sia trattato di un’operazione di facciata per nascondere la polvere sotto il tappeto dà ancora lo stesso irritante prurito alle mani. Perché, se il modello lombardo ha fallito, a saltare è soltanto Gallera? E perché se, sin dall’inizio dell’emergenza COVID non si è rivelato all’altezza, soltanto adesso viene rimosso? Di certo, la favola della stanchezza come motivazione ufficiale regge decisamente poco.
In questi mesi, la giunta a trazione leghista ha fatto l’impossibile per essere rispedita a casa, eppure tuttora persiste, tuttora continua ad amministrare la Regione più potente di Italia, tuttora al suo cospetto alle altre viene chiesto di renderle il giusto tributo. Quello che sta accadendo al Pirellone, dunque, suona più come un tentativo – estremo – di mettere la toppa, di scegliere il franco tiratore da dare in pasto a una folla appena giustiziera, dimentica, quasi, di ciò che l’azione di chi amministra da quelle parti ha recentemente significato in termini di sanità pubblica e di tutela della vita dei singoli, di quei troppi che non ci sono più. Il disastro lombardo – lo sappiamo tutti – ha decisamente più nomi di quanti non ne siano appena stati sostituiti. Il primo è quello di Attilio Fontana. Per ruolo, ovviamente, ma anche per inidoneità. Per il tentativo, ancora da chiarire, di lucrare su questa orribile vicenda di cui si è smesso da tempo di indagare.
Che ne è stato dei suoi rapporti ambigui con il cognato? Che ne è stato della donazione – alias risarcimento – di provenienza sconosciuta da un trust alle Bahamas trasferito sul milionario conto svizzero frutto di una vita di lavoro della defunta mamma dentista? Non se ne parla. E della mancata vendita al Pirellone della partita di camici ospedalieri che la centrale acquisti della Lombardia aveva assegnato a Dama S.p.A., società di Andrea e Roberta Dini, moglie di Fontana, per un totale di 82mila pezzi e un valore di 513mila euro a carico dei contribuenti? Nemmeno. Una fornitura diventata donazione – solo in parte (il resto hanno provato a rivenderlo a un’azienda di Varese) – perché qualcuno ha avanzato sospetti. Che ne è stato, quindi, del polverone che, per i primi giorni, è sembrato travolgere il Presidente? Dissipatosi, nel dibattito pubblico, politico, giornalistico, come spesso, troppo spesso, succede in questo Paese e in certi territori.
Lo abbiamo scritto tempo fa e lo ripetiamo adesso: domandare è lecito, rispondere, in politica – e in magistratura –, è d’obbligo. Ed è lecito domandare perché, alla luce di inchieste e massacri, la Regione non sia mai stata commissariata, perché la mancata zona rossa sia diventata un’altra strage italiana, perché gli interessi contino sempre più delle persone, della vita, dell’immagine che l’infallibile Nord deve dare al mondo. Perché le strategie politiche contino sempre più del casellario giudiziale.
Giulio Gallera lascia il Pirellone, dunque. Ma è il solo a pagare, sostituito – secondo la logica che ha guidato la Regione in questi anni – da un curriculum decisamente valido. Valido, almeno, per quella carta bianca che Moratti chiede oggi per amministrare la sanità lombarda. Oggi che da quelle parti i soldi stanno per piovere copiosi e lei sa come spenderli. Forse, ha ragione una nota pagina satirica: rimuovere Gallera è come pulire la suola di una scarpa sola (Kotiomkin).