Giovedì 8 agosto è stata una fin troppo calda giornata d’estate che la Russia non dimenticherà facilmente. A Nenoksa, base militare sulla costa del Mar Bianco, infatti, è avvenuto un incidente, nel quale hanno perso la vita cinque scienziati, che pare abbia coinvolto un piccolo reattore nucleare utilizzato per un missile Burevestnik che da diversi mesi l’esercito di Putin sta testando. Il bilancio ufficiale, però, è di sette vittime, anche se a oggi ancora non si conoscono le identità delle altre due. Secondo il Norsar Research Institute, centro di ricerca norvegese che collabora con il CTBTO, Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization, le esplosioni sono state in realtà due e la seconda avrebbe diffuso radioattività nell’ambiente.
Anne Lycke, amministratore delegato del centro, ha dichiarato: «Le stazioni di monitoraggio dell’istituto hanno rilevato una prima esplosione alle ore 9, ora locale, grazie ai dati raccolti dalle nostre stazioni sismografiche. Le letture hanno indicato un’esplosione che si è verificata da qualche parte vicino alla superficie terreste nella zona di Severodvinsk/Nenoska, non possiamo dire se sul terreno o sull’acqua. Circa due ore dopo, alle 11 di mattina, un diverso sensore progettato per rilevare gli infrasuoni, o suoni a bassa frequenza, ha registrato un altro evento acustico. I ricercatori hanno concluso che quella era probabilmente un’esplosione che è avvenuta in aria, a una certa altezza dal suolo. L’orario della seconda esplosione sarebbe compatibile con il picco di radioattività gamma registrato a Severodvinsk attorno a mezzogiorno».
A tal proposito, il New York Times ha pubblicato un articolo nel quale scrive che, secondo TV29, un sito di informazioni russo, agli abitanti di Nenoksa è stato chiesto di lasciare la città a bordo di treni speciali messi a disposizione dal governo per via di alcune attività da svolgere nella base militare. Ma, a oggi, non è stato confermato né tantomeno chiarito dalla stampa se questa evacuazione sia avvenuta davvero oppure no. Segreti su segreti avvolgono la vicenda, e le settimane trascorse non aiutano a fare chiarezza. Eppure, qualche giorno fa il Presidente Putin ha dichiarato che non vi è alcuna minaccia. Sono stati inviati sul posto esperti, anche indipendenti, che stanno monitorando la situazione. Le sue dichiarazioni, però, sono arrivate soltanto dopo che il capo della CTBTO, Lassina Zerbo, aveva denunciato che le stazioni di monitoraggio di Kirov, Dubna, Bilibino e Zalesovo, vicine al luogo dell’esplosione, hanno smesso di trasmettere dati aumentando così il sospetto che la Russia stesse cercando di nascondere l’esecuzione di test nucleari vietati. Si tratta, inoltre, di un divieto firmato da 184 Paesi e ratificato da 168, fra cui proprio la nazione di Mosca. Intanto, sul versante italiano, il dottor Lorenzo Bianchi, Responsabile S.C. di Fisica Sanitaria A.S.S.T. della Valle Olona, ha dichiarato che con questi valori possiamo aspettarci una contaminazione che non è per nulla paragonabile a quella avvenuta in altri eventi quali possono essere Chernobyl o Fukuskima.
Ma non finisce qui. In questi giorni, la Russia ha portato a casa un primato: l’impianto accademico Lomonosov, una centrale nucleare galleggiante, partita lo scorso 23 agosto, che dovrà percorrere 5mila chilometri per raggiungere la remota città portuale di Pevik. Dopo l’incidente di Nenoksa, si teme il peggio e Greenpeace ha definito questo progetto Titanic nucleare, ma anche la Chernobyl sul ghiaccio. Lo scopo è quello di sfruttare le nuove vie dell’Artico al fine, forse apparente, di aiutare la regione Chukotka. Secondo quanto dichiarato da Rashid Alimov, responsabile per la ONG delle campagne nucleari, invece, in realtà la preoccupazione principale della Russia sarebbe quella di mostrare ai clienti stranieri il proprio modello.
Per il Barents Observer, entro il 2035, nell’Artico russo ci saranno le acque più nuclearizzate del pianeta, un pianeta che ogni giorno è sempre più minacciato dall’uomo: il global warming causato dalle emissioni di gas a effetto serra, gli incendi in Alaska, in Siberia, in Amazzonia, e per finire la continua guerra al nucleare… L’uomo ce la sta mettendo tutta per creare una situazione di non ritorno, dando vita a un campo minato dove anche un piccolo passo può risultare fatale. Una notizia che è passata quasi inosservata perché messa in secondo piano da Brexit, crisi di governo in Italia e situazione migranti, dimenticando che un disastro nucleare causa tre grandi problemi: il primo è economico, il secondo riguarda l’ecosistema e il terzo è quello umano.
Dal punto di vista economico, la nazione dove avviene l’incidente si vede costretta a spendere cifre enormi per il contenimento iniziale del disastro, per l’evacuazione, per la bonifica, per la ricostruzione, per l’impatto energetico, per il tasso delle assicurazioni per gli impianti nucleari e, in un secondo momento, per le spese sanitarie che si dovranno affrontare, anche nell’arco di un secolo. Per esempio, a Three Mile Island il costo è di 1 miliardo di dollari, per il disastro di Fukushima le spese ammontano a circa 660 miliardi di dollari – nei quali è compresa la bonifica –, infine per Chernobyl non si conosce il dato della spesa, ma si presume si parli di centinaia di miliardi di dollari. L’impatto del disastro per le singole nazioni, oltre alle spese affrontate dalla Russia, è di 10 miliardi di dollari per l’Ucraina e di 19 miliardi per la Bielorussia. Dal punto di vista ambientale, inoltre, una zona diventa invivibile nel raggio di 30 chilometri dal centro dell’incidente, area che deve essere bonificata per abbassare i livelli di radioattività. Le falde acquifere risultano inquinate, così come le risorse alimentari per animali ed esseri umani non sono più utilizzabili (acqua potabile, latte e derivati, carne e vegetali) mentre, in casi di incidenti vicino alle coste, il danno è incalcolabile.
Per ultimo, ma non meno importante, c’è il danno umano. Per numero di decessi immediati, la parola disastro potrebbe anche non essere applicata, ma le morti da radiazioni non sono mai immediate, sono un male che si insinua in modo silenzioso, apparentemente invisibile, che può anche mostrarsi molti anni dopo. Un esempio lampante è la stima di vittime stilata da Greenpeace per Chernobyl nell’arco di 70 anni che ammonta a 6 milioni di vittime circa. Nel caso di Three Mile Island, invece, le morti dirette sono pari a 0, per Fukushima a 2, mentre per Chernobyl la stima ufficiale del governo sovietico, nell’anno 1987, ammontava a 31 morti, anche se ne sono stati accertati 66.
Di incidenti nucleari ne sono avvenuti tantissimi e l’errore umano è sempre stato una delle cause principali. Ovviamente, si cerca sempre di imparare dai propri sbagli, migliorare le tecnologie e la formazione di chi lavora all’interno di una centrale, proprio per evitare che questi eventi possano ripetersi ma, nonostante HBO abbia risvegliato i ricordi e svelato alcune informazioni che sembravano poco chiare a suo tempo, attraverso la serie televisiva Chernobyl – a seguito della quale tv russe si stanno già muovendo per girare una serie ispirata alla loro verità sul disastro –, sembra che la Russia non abbia imparato la lezione. Infatti, due medici dell’ospedale Arcangelo hanno dichiarato anonimamente, tramite la BBC, di non aver utilizzato alcun tipo di protezione con i feriti dell’esplosione avvenuta lo scorso 8 agosto. Circa novanta persone sono, inconsapevolmente, entrate in contatto con i pazienti contaminati e questo è accaduto perché non sono state informate dell’incidente e le autorità hanno inizialmente negato che ci fossero delle fughe radioattive, proprio come successo nello storico disastro.
È davvero inaccettabile che, come a Chernobyl, la Russia non lasci trapelare notizie certe, ponendo in secondo piano la sicurezza altrui pur di mantenere alto l’orgoglio. Non importa se può morire qualche scienziato, non importa se ancora una volta la flora, la fauna e le persone diventano vittime di un male che non possono prevedere né controllare. Ciò che conta davvero è produrre armi e rendersi forti agli occhi di Paesi con i quali si è da sempre in contrasto, primi tra tutti gli Stati Uniti.