Quella notte mio padre mi aspettava come tante altre notti per darmi la notizia “a caldo”. Era incollato da giorni di fronte alla tv, su un canale privato che aveva un inviato a Barcellona nell’attesa spasmodica di una firma. Papà era ai suoi giorni finali, quella terribile malattia lo aveva devastato, ma un probabile arrivo di Diego pareva davvero un placebo. Non feci in tempo a girare la chiave nella toppa che lo vidi, rosso in volto, correre – si fa per dire – a darmi la notizia. Maradona era un calciatore del Napoli!
Impazzimmo di gioia insieme e mi ritornò alla mente quando in quell’autunno del 1965, piccolino sulle sue spalle tra una folla immensa, avevamo accolto l’arrivo di un altro estroso argentino, Omar Sivori, alla stazione di Piedigrotta.
La gioia di papà durò pochi, pochissimi mesi. Andò via presto, ma quella radiolina sintonizzata su Tutto il calcio minuto per minuto vicino al suo posto a tavola, nella speranzosa attesa del gol di Maradona, segnò gli ultimi suoi momenti di felicità calcistica, senza purtroppo riuscire a coronare quel sogno, suo e di tutti i napoletani, di veder arrivare lo scudetto tanto agognato nella città sul Golfo.
Il 5 luglio 1984, il Pibe de Oro si presentò al San Paolo davanti a 70mila persone ubriache di felicità: sembrava impossibile ma il più forte calciatore al mondo era qui, sotto i nostri occhi. Sotto i miei occhi, perché quel giorno al San Paolo io c’ero, con mia moglie e un nipotino, nel tripudio di bandiere e canti, fino all’urlo che salì in alto quando Diego scagliò quella palla che voleva bucare l’azzurro sopra la città. Sette palleggi e un calcio al cielo con il suo sinistro magico.
Maradona a Napoli non ha solo giocato, Maradona a Napoli ha portato, dentro ma soprattutto fuori dal campo, la mentalità vincente in una città troppo mortificata e spesso la peggior nemica di se stessa, chiusa nel vittimismo di chi si sente “inferiore” perché senza protezioni, San Gennaro escluso per i credenti. Diego arrivava proprio qui, vincendo i potentati calcistici e non che non vi erano riusciti, nonostante i tantissimi milioni offerti. Ma Diego era già scugnizzo prima ancora di arrivare, tutto genio e sregolatezze, come si suol dire. E quella sua infanzia povera nella periferia di Buenos Aires lo attesta. Eppure lui, contrariamente a tanti altri scugnizzi che lo avrebbero meritato, lui in cima al mondo c’era arrivato. Era il riscatto, la favola del povero che grazie ai soli suoi mezzi era riuscito ad arrivare.
Diego la amò quella Napoli, fin dal primo giorno, e come tutti i napoletani, anche quelli che lo diventano dopo, ne subì il paradiso e pure l’inferno.
«Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos». Ci riuscì.
«Chiedono ai napoletani di essere italiani per una sera dopo che per 364 giorni all’anno li chiamano terroni». Non si risparmiò di fronte all’ipocrisia.
«Che significa Napoli per me? È la mia casa». E lui era un figlio nelle case di tutti i napoletani.
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
La fuga e la vittoria,
La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,
Due volte sull’altar.
Senza essere un Napoleone, ma solo uno degli undici. O uno di un milione.
Chi ha visto Maradona ha visto il Calcio, lo spettacolo di arte pura. Ha visto la fragilità di un Uomo schiacciato da troppe responsabilità. E anche da troppe cattiverie, quando il giudizio estetico è stato sommerso dal giudizio sull’essere umano, assolvendo tutti gli altri uomini al mondo, condannando proprio lui, quello venuto dal nulla e che per questo non avrebbe dovuto osare scalare le gerarchie, dare del tu ai potenti, mettersi contro, abbracciare tutte le povertà in tutti i continenti.
Diego non è morto, e non è la solita frase di circostanza.
Diego è immortale.
Ho visto Maradona. Lo diranno ancora tutti i cebollitas argentini piccoli di statura ma grandi nel genio e nel cuore, tutti gli scugnizzi napoletani giocando a pallone in Piazza Mercato.
Ciao Diego, salutami papà.
Un contributo a cura di Carlo Fedele