Esiste un ponte nel cuore dell’Europa, in prossimità della città di Basilea, che unisce tre nazioni: Francia, Germania e Confederazione Elvetica. Si tratta di un’unica, grande conurbazione transfrontaliera in cui Schengen esiste al di là di Schengen, prescindendo persino dalla presenza di un’unica valuta, con tutto ciò che questo comporta sul piano del rispetto dei vincoli capestri, da cui l’esistenza stessa dell’Euro dipende, a danno degli Stati che (non) hanno scelto di adottarlo come propria moneta. Questo francobollo d’Europa è la dimostrazione plastica che solo il riconoscimento delle identità consente il dialogo finalizzato al libero scambio tra queste, ognuna nel reciproco rispetto dell’altra.
Non barriere dunque, ma ponti, come quello denominato des Trois Frontières, costruito per consentire l’attraversamento di un confine geografico come quello rappresentato dal Reno per andare da Huningue (Francia) a Weil am Rhein (Germania) in meno di 15 minuti a piedi, raggiungere il Campus Vitra in terra tedesca in circa un’ora e tornare dopo un’altra ora di cammino nuovamente in Svizzera passeggiando per boschi, vigneti e opere d’arte, che segnano una delle più belle vie del vino del continente, verso Basilea.
Le annessioni monetarie, come ci insegna Vladimiro Giacché, non hanno mai prodotto unità, ma solo colonie interne, come il Sud Italia nei confronti dell’Italia o come la Grecia, ma non solo, nei confronti dell’Europa. Non è un caso, infatti, che alcuni economisti del livello di Paul Krugman abbiano coniato il termine piuttosto inquietante di mezzogiornificazione, per descrivere quel processo di progressivo assoggettamento del Sud al Nord Europa, lean-earmente condotto applicando le regole di dimagrimento forzato dello Stato a vantaggio di acquisizioni private, quale inevitabile conseguenza delle politiche di Austerity.
Quando frequentavamo la scuola elementare, o dicasi anche primaria (da Primary, per effetto dell’inglesizzazione di massa che da decenni subiamo con piacere, come veri e propri pazienti affetti da sindrome di Stoccolma), ci dicevano: “Un tempo l’Italia era formata da tanti Stati e Staterelli poi, per volontà del Piemonte, finalmente venne unificata in un unico Stato.”
Un bel giorno non troppo lontano, a chi avrà la fortuna di avere dei figli o magari già ne ha, molto probabilmente capiterà di sentirsi candidamente dire che un tempo l’Europa era formata da tanti Stati e Staterelli poi, per volontà della Germania, finalmente venne unificata in unico Stato.
Con l’avvento dei social, inoltre – tra like e inviti a eventi di ogni genere – capita di leggere che a Torino viene organizzata e realizzata una “Festa dei meridionali”. Torino è una città storicamente, e forse più di altre, ricostruita e sostenuta da braccia tolte all’agricoltura meridionale, per cui va da sé che anche oggi, a fronte di una “festa” organizzata in loro onore, tutti i meridionali si sarebbero dovuti rallegrare (e probabilmente in molti l’avranno anche fatto). Ma a pensarci bene cos’è, in realtà, una “Festa dei meridionali” se non una piccola concessione culturale che certifica subalternità di una parte nei confronti dell’altra? E allora forse è giunto il momento di sottolineare che non c’è bisogno di essere festeggiati in quanto meridionali, bisogna voler essere non celebrati, ma pretendere di essere ringraziati in quanto italiani, spostando quel sano senso di orgogliosa provenienza, più che appartenenza, dal sentirsi meridionali al sentirsi italiani… del Sud. Allo stesso modo è necessario cominciare a sentirsi europei, di provenienza e lingua italiana, e dunque ancora una volta semplicemente italiani, consapevoli del fatto che ubi minor, maior cessat, fino a rendersi definitivamente conto che la Bellezza è tutta racchiusa in un passo, enorme per un uomo benché insignificante per l’umanità, la quale solo nel momento in cui tornerà a sapersi riconoscere nell’enormità dei piccoli, differenti passi dati da ognuno di noi, potrà liberamente tornare a scorrere come un fiume, sotto tutti i ponti di un’Europa unita e non ingabbiata.
Se non vogliamo che l’Europa resti una “semplice espressione geografica”, è necessario prendere coscienza del fatto che noi non siamo in Europa, noi siamo l’Europa e saranno i nostri piccoli, inesorabili passi a rimetterla in cammino poiché è l’unità, che deriva dal riconoscimento reciproco delle differenze, il dato culturale che può e potrà fisiologicamente garantire l’unione, non il contrario.