Quando ho avuto tra le mani il libro Diario di bordo. Un anno di scuola in carcere nei pensieri di una prof e degli studenti della classe accanto di Antonella Ferri, nelle librerie grazie a Tullio Pironti editore (2019), ho pensato a un denso e articolato saggio a più voci intorno al problema della devianza sociale e dell’educazione scolastica per gli adulti all’interno di un’istituzione totale rappresentata dall’universo carcerario.
Sin dalle prime pagine, invece, mi sono accorto di trovarmi alle prese con un’opera anomala, che sfugge alle usuali classificazioni editoriali, perché vuole esprimere e far comprendere, più che descrivere, la complessa e contraddittoria realtà delle storie di vita da cui riprende i flussi di coscienza raccolti in una forma letteraria più che saggistica.
Già nella prefazione, d’altronde, è Francesca Laccetti, psicologa e formatrice con forme d’arte, a ricordarci che l’arte esprime chi la pratica, libera cose di noi che non conosciamo e, in riferimento all’azione della prof. protagonista assieme ai suoi allievi e della testimonianza scritta, aggiunge che educare significa mettersi in gioco in una relazione. Ed è proprio quello che ha fatto Antonella Ferri e nel volume lo dichiara fin dall’inizio, quando afferma che insegnando si possono imparare tante tante cose.
Un progetto di bellezza e di liberazione, insomma, ben rappresentato fin dall’immagine di copertina, dettaglio di una fotografia di Francesca Testa – Blu, facciata dell’ex Opg Occupato “Je so’ pazzo” –, che rimanda a una narrazione visiva di catene spezzate e di libertà. Una conquista che forse solo la cultura, in fondo, può offrire, come ci rammenta l’autrice, che dal 1997 insegna presso il Centro Penitenziario Pasquale Mandato di Secondigliano, dove ha unito il ruolo di docente con l’impegno volontario per le attività culturali svolte in collaborazione con il personale educativo presente nell’istituto.
La lunga esperienza scolastica tra i detenuti adulti, sia ben chiaro, è supportata da una notevole base teorica, che possiamo rintracciare nell’ultima sezione del libro intitolata Fare scuola in carcere dove la prof. Ferri ripercorre il cammino che ha portato all’esperienza didattica ed esistenziale in forma di narrazione autobiografica. Lo racconta in maniera sempre anti-retorica, facendo esempi che collegano la preparazione incentrata sull’educazione degli adulti – dichiaratamente influenzata dai contributi saggistici del filosofo Duccio Demetrio – e ricondotta all’esperienza vissuta sul campo, mossa anche dalle passioni individuali (l’informatica, la poesia, l’arte grafica), da altri contenuti, come lo studio del mito, e da varie tecniche di comunicazione come il Visual Thinking.
Così nasce l’idea del diario di bordo e della raccolta dei suoi pensieri e di quelli degli studenti della classe accanto, suoi allievi degli anni precedenti, che lei lascia, con sofferenza e coraggio, perché adesso sanno viaggiare da soli tra libri, date, numeri, storie, parole, per dedicarsi alle prime classi dei detenuti non ancora scolarizzati. L’impulso affettivo più della scelta razionale muove questa decisione che ritroviamo espressa in un suo pensiero: Chissà se hanno capito quanta rabbia c’è nella mia dolcezza, e quanta dolcezza c’è nella mia rabbia!
La certezza e il dubbio, in effetti, costituiscono le due polarità che racchiudono l’orizzonte di senso individuale e relazionale che sta alla base della vita/lavoro e, in particolare, di questo viaggio che l’autrice intraprende con i suoi compagni di strada detenuti, quei cittadini invisibili che vivono un’esistenza al margine della vita societaria e diventano visibili soltanto quando le loro azioni costituiscono un problema di ordine pubblico.
La prof. Ferri proviene dalla certezza consolidata del codice civile in una società regolata dalle leggi, ma ogni tanto è presa dal dubbio, osservando l’ambivalenza delle psicologie individuali e riflettendo sulle palesi disuguaglianze economico-sociali e culturali, che spesso impediscono alla legalità formale di trasformarsi in reale giustizia, soprattutto nel determinare le opportunità di vita degli uomini e delle donne di una comunità umana.
Gli studenti della classe accanto, invece, nella maggioranza dei casi, vivono fin dalla nascita all’interno del codice deviante, l’inferno sulla Terra delle vite sbagliate, dove il contesto ambientale non dà possibilità di scelta. Nonostante questa condizione, il dubbio ogni tanto li scuote, intorno alla possibilità che dall’altra parte del ghetto fisico e mentale costituito dall’unica strada conosciuta non ci siano soltanto le catene del rigido ordine costituito, ma anche un possibile e umano riscatto, la scoperta inaspettata di poter essere e di fare qualcosa di diverso e, alla fine, di dare visibilità alla propria esistenza.