Quando il governo Conte bis è nato, era già piuttosto evidente che quella attuale non fosse la strada preferita dalle parti in causa. Negli ultimi dieci anni, infatti, il MoVimento 5 Stelle non si è mai risparmiato nei confronti del Partito Democratico – si pensi allo streaming tra Renzi e Grillo o a quando il comico ha equiparato il PD al PDL, parlando di PD-L –, così come il gruppo guidato oggi da Nicola Zingaretti è stato a sua volta veemente verso Di Maio e i pentastellati tutti ritenendoli, quantomeno nella gestione renziana, gli avversari da battere, anche più rispetto al crescente Salvini e alla già agonizzante Forza Italia.
Dopo la disastrosa esperienza gialloverde – più per il clima creato nel Paese che per i provvedimenti adottati – e dopo l’inebriante vacanza del leader felpato convinto che il Papeete fosse il Parlamento, però, proprio gli stessi Grillo e Renzi hanno fornito l’input affinché si formasse un esecutivo che potesse evitare l’aumento dell’IVA e puntare sui temi comuni: d’altronde, sin dal suo ingresso in politica il comico genovese ha spesso vaticinato le similitudini di fondo tra le due fazioni.
Eppure, quello che è successo in questi mesi lo conosciamo tutti: diffidenza reciproca, difficoltà a farsi vedere in pubblico insieme, divergenze sulla prescrizione, la sonora sconfitta in Umbria e così via. D’altronde, da una parte abbiamo un Di Maio che, palesemente scottato dalla precedente esperienza, vuole evitare che il “socio di minoranza” possa nuovamente farla da padrone, dall’altra il Governatore del Lazio che non è mai stato convinto fino in fondo di quest’unione.
Il problema, non a caso, si sta riproponendo ora con le Elezioni Regionali di gennaio, in particolare quelle in Emilia-Romagna, dove la Lega sta puntando tutto su Salvini travestito da Lucia Borgonzoni – visto che, come in Umbria, è lui che ci mette la faccia e fa i suoi show trasformando ogni tornata locale in una votazione sulla sua persona, tra l’altro dimostrando di essere pagato per fare solo questo dato l’alto tasso di assenteismo – mentre il centrosinistra ha deciso di riaffidarsi a Stefano Bonaccini, Presidente uscente supportato da liste civiche, dunque non espressione di un singolo partito. E in tutto ciò Di Maio che fa? In qualità di autorevole capo politico, ha deciso di deresponsabilizzarsi e di affidare alla piattaforma Rousseau la decisione di candidare o meno i 5S alle Regionali e, dopo l’esito positivo – forse inaspettato –, ha affermato che il MoVimento correrà da solo.
Ora, lo stato di smarrimento in cui si trova il Ministro degli Esteri costretto a fare i conti con la rapidissima perdita di consenso e con le scelte sbagliate dell’ultimo anno e mezzo è certamente comprensibile, ma proprio questa non brillante fase pentastellata dovrebbe convincerlo che è il momento di guardare in faccia la realtà e di cambiare passo: dando per scontato che l’attuale sarà l’ultimo governo di questa legislatura, una vittoria della destra in Emilia farebbe certamente traballare l’esecutivo, il che significherebbe che di lì a poco dovremmo tornare alle urne, sicuri che l’ex titolare del MISE potrà scordarsi di raggiungere le percentuali ottenute nel 2018 – e magari farsi anche un mea culpa. Viene da chiedersi, dunque, per quale motivo si ostini così tanto a non appoggiare Bonaccini.
In effetti, parliamo di un personaggio che ha amministrato per cinque anni una delle più avanzate regioni italiane e che ha varato l’abolizione del superticket e del ticket base sulle prime visite specialistiche così da andare incontro alle esigenze delle classi meno agiate, cioè le stesse a cui Di Maio e i Cinque Stelle dicono di voler rivolgere le loro attenzioni. Inoltre, queste elezioni sarebbero il momento giusto per rinvigorire il rapporto tra le due forze affinché la loro non si limiti a essere meramente un’intesa contro qualcuno bensì l’occasione per mettere sul tavolo temi su cui fondare il tandem emiliano per riproporlo, poi, sia nella compagine governativa sia nelle altre regioni. Con ciò non si chiede assolutamente di sostenere i discutibili Oliverio o De Luca, ma di non sottovalutare che l’Emilia-Romagna sia una delle regioni più virtuose sia dal punto di vista infrastrutturale sia dal punto di vista sanitario e dei servizi, nonché una delle mete preferite dai giovani che scelgono di spostarvisi per studiare o lavorare.
Il più giovane Vicepresidente della Camera della storia repubblicana, quindi, dovrebbe smetterla di improvvisare classi dirigenti per le amministrazioni locali e capire che è necessario un percorso formativo diverso nei territori rivolto a chi intende candidarsi a gestire realtà – non sempre facili – che non possono essere governate da soggetti messi lì in maniera frettolosa e superficiale. Per una volta ha la fortuna di sostenere personalità che hanno presieduto discretamente la regione rossa per eccellenza e, persino, di poter vincere con un programma comune. A meno che Di Maio non voglia emulare tanti altri rappresentanti nostrani e compiere – per un suo capriccio – un assurdo suicidio politico. Se così fosse, per qualche suggerimento gli basterebbe telefonare a Renzi, la cui morte politica è avvenuta esattamente tre anni fa. E ancora non si è ripreso.