Tutto come abbiamo più volte previsto su questo giornale: il suicidio del MoVimento 5 Stelle si è compiuto. A dirlo è il passaggio dal 32.68% dei voti al 17.77% grazie al capolavoro del Segretario Luigi Di Maio, prossimamente ricordato nella storia del nostro Paese come il politico buono e generoso che ha offerto su un piatto d’argento milioni di preferenze all’alleato di governo, ritrovatosi da quello stesso 17.37% al 34.4% dopo appena un anno.
Non c’è che dire, davvero un’operazione di ingegneria politica che meriterebbe la riconoscenza dei 9 milioni 151468 elettori della Lega che, dall’estremo Nord al Sud, si sono riconosciuti nelle politiche xenofobe, razziste e di odio dell’uomo leader di una forza in Parlamento dal 1994 e sempre presente nei vari governi del ventennio berlusconiano, che hanno prodotto i disastri che ancora oggi paghiamo e che le nuove generazioni pagheranno per decenni.
Politiche che nei giorni precedenti la competizione elettorale hanno raggiunto momenti di grande tensione e preoccupazione per episodi di abusi contrari a ogni minima regola democratica degna di un Paese civile: sequestri di cellulari di manifestanti, requisizione di lenzuola con scritte di dissenso nei confronti del Ministro Salvini mediante accessi in abitazioni private, persino ricorsi alle autoscale dei Vigili del Fuoco destinate a ben altri delicati interventi. Un clima, però, condiviso dai milioni di italiani che hanno dato un segnale ben preciso al Matteo delle madonne e dei crocifissi ostentati come amuleti che, bisogna riconoscere, hanno sortito l’effetto desiderato, condivisioni più che moltiplicatesi addirittura in quella parte di Sud che ha smarrito, oltre alla memoria, anche la dignità. A tal proposito, un breve cenno va fatto sull’incremento riscontrato nel capoluogo campano – anche se ancora minimo in termini percentuali – dove si è giunti al 12.3% contro il 2.59% delle recenti Politiche, vale a dire 36657 elettori rispetto ai 3062 del 2018. Un risultato comunque più irrilevante rispetto alle altre città del Sud.
Ma non è della Lega che in questa circostanza occorre mettere in risalto eventuali meriti e demeriti. Occorre, piuttosto, fare un piccolo ma utile sforzo di memoria di tempi non lontani. A un anno appena dall’insediamento del governo del contratto – come ha opportunamente ricordato il collega Alessandro Campaiola, con il suo articolo L’Europa che sarà: cosa cambia con il voto di ieri –, infatti, i grillini pagano le bugie della campagna elettorale, le promesse non mantenute come l’ILVA o la TAP, soprattutto, si assumono la responsabilità di aver consegnato il Paese alla destra nostalgica, a Salvini e Meloni.
Non solo bugie, però – la più colossale a Taranto –, ma anche la fanfaronata del reddito di cittadinanza del quale si hanno riscontri sempre più confusi e contraddittori, l’aver evitato il processo a Matteo Salvini, contrariamente a ogni spergiuro fatto dai maggiori esponenti del MoVimento, comportamenti diversi rispetto ad altri casi analoghi, una sequela di menzogne, il contrario di tutto in perfetto stile Beppe Grillo, il minimizzare il furto a opera del Carroccio degli ormai famosi 49 milioni di euro, la conseguente ridicola e scandalosa rateizzazione e, una per tutte, l’iniziale balla, quella da guinness: mai con la Lega. Come non ricordare, poi, il passaggio da occorre l’impeachment per Mattarella a Mattarella angelo custode del governo a distanza di appena sei mesi?
L’elettorato, quello fluttuante che con facilità è trasmigrato da Berlusconi a Renzi e poi a Di Maio, non perdona le bugie, non quelle scandalosamente eclatanti come l’abbraccio mortale con un partito più che compromesso con il sistema che i 5 Stelle hanno sempre demonizzato nelle piazze dei vaffa alla prima occasione tornati al mittente.
Persa in un anno appena la metà dei consensi, in una forza politica strutturata, con dei vertici, con una direzione che si rispetti, le dimissioni sarebbero più che un atto dovuto, un atto che persino l’arrogante Matteo Renzi, anche se con qualche tentennamento, diede in tempi brevissimi dopo il tracollo conseguente all’altro capolavoro di distruzione del Partito Democratico – forse in parte voluto –, partito oggi soddisfatto, a giusta ragione, seppur di un minimo recupero avendo ottenuto il 22.8% contro il 18% delle Politiche e il 40.8% delle Europee del 2014, divenendo il secondo partito del Paese non per proprio merito ma per demerito del M5S.
Intanto, la Meloni, comprensibilmente fiera di aver superato lo scoglio del 4%, si pone come alternativa all’alleato di Matteo Salvini e l’inossidabile Berlusconi, sempre meno somigliante a se stesso, ha fatto la sua brava campagna elettorale personale ottenendo l’elezione dopo cinque anni di astinenza forzata, certo di diventare il deputato più rappresentativo del Parlamento – sono sue le parole – con il quale fare i conti. Una nota divertente in un contesto del quale c’è poco da stare sereni.
L’intransigenza di Salvini su temi come l’autonomia di alcune regioni del Nord, il decreto sicurezza bis, la Flat Tax e le prossime scadenze, come l’aumento dell’IVA e la legge di bilancio, saranno banchi di prova di un’alleanza già traballante.