Il mondo penitenziario è prettamente maschile e non solo perché la maggior parte della popolazione detenuta è composta da uomini, ma soprattutto perché fin dalle sue origini è stato congegnato come luogo abitato e frequentato da uomini e, dunque, rispondente solo ai loro bisogni. È su questo tema che si è concentrata l’Associazione Antigone nell’ultimo rapporto che ha pubblicato qualche settimana fa e che parte proprio dai numeri della detenzione femminile per affrontare criticità e problematiche connesse.
Le donne in carcere al 31 gennaio 2023 erano 2392, circa il 4% della popolazione detenuta totale, tra cui 15 madri con 17 figli al seguito. Si tratta di dati pressoché costanti da molti anni, durante i quali gli istituti si sono caratterizzati per la scarsa presenza di donne, oltre che per la poca pericolosità sociale di queste, le cui pene sono spesso molto più brevi di quelle degli uomini. Tuttavia, si tratta di un dato che non significa che in maniera banale le donne siano meno inclini a delinquere, bensì di numeri che ci raccontano una complessità di vissuti e marginalità difficile da cogliere, senza considerare i filtri che il sistema della giustizia penale frappone fra la commissione del reato e la pena.
La legge sull’ordinamento penitenziario prevede che le donne siano ospitate in istituti appositi o comunque in sezioni degli stessi a loro dedicate e che, quindi, siano più adeguati alle loro esigenze e necessità. Attualmente, le carceri femminili sono solo quattro in Italia (Rebibbia, Pozzuoli, Venezia Giudecca e Trani), mentre ci sono cinque istituti a custodia attenuata per detenute madri (ICAM) e numerose sezioni femminili sparse in tutta Italia.
Tuttavia, nonostante la loro scarsa presenza in carcere, le donne scontano i problemi derivanti dal sovraffollamento anche più degli uomini considerato che, per gli spazi a esse dedicate, il tasso di affollamento ufficiale raggiunge il 112,3% al di sopra di quello rilevato negli istituti e nelle sezioni maschili, senza tener conto che entrambe le percentuali sono ben lontane dalla realtà, dati i moltissimi spazi e posti letto inutilizzabili.
Quello che emerge nelle storie e nelle testimonianze raccontate da Antigone è innanzitutto la supplica, perennemente inascoltata, di essere considerate persone, di restare degni di dignità, di cure mediche, di sostegno, di accompagnamento, di relazioni, insomma di restare umani. Così facile a dirsi, così scontato, eppure irraggiungibile in una realtà come quella carceraria.
E per quanto la distanza tra dentro e fuori sia enorme, e spesso incolmabile, le donne scontano molti di quei problemi che sono legati alla stessa concezione del genere femminile tipico della nostra società patriarcale. Basti pensare alle attività rieducative che vengono loro proposte, quelle tipicamente legate al ruolo di madre, come se lo stesso percorso rieducativo debba necessariamente coincidere con l’assunzione – o la riassunzione – della figura genitoriale.
Come specificamente spiegato nel rapporto, tale concezione stereotipata ha radici lontane, in generale nella nostra società ma in particolare per l’universo penitenziario, nel cui ambito il tentativo di riforma previsto nella legge delega 103 del 2017 con norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute (ampliando dunque la tutela giuridica al di là del ruolo genitoriale) è rimasto in sede di applicazione praticamente inattuato. I discorsi e le attività trattamentali portati avanti negli istituti e nelle sezioni di detenzione femminile risultano quindi appiattiti sull’essere madre, portando con sé uno stereotipo tipico delle prime strutture detentive nate per le donne, con la funzione in particolare di mantenere intatta la loro virtù, o di rieducarle alla stessa, per quelle che l’avevano già persa secondo l’idea comune.
E così oggi i principi fondamentali su cui sembra basarsi l’universo penitenziario femminile sono l’uguaglianza formale delle persone detenute, siano esse uomini o donne, la separazione tra generi e la tutela della figura materna. Per quanto quest’ultimo aspetto sia assolutamente rilevante, se si pensa alle problematiche connesse alla presenza di bambini in strutture carcerarie, con tutto ciò che consegue in termini di sacrifici per la loro educazione e per la loro crescita soprattutto psicologica ed emotiva, non si può pensare che le donne siano solo madri o destinate a diventare tali. Né tantomeno è plausibile immaginare di misurare il percorso di reinserimento sociale di una donna dalla sua capacità di essere genitrice o sicuramente non solo da questa.
Quello che Antigone tenta di raccontarci sono vissuti, ciascuno particolare e unico, di persone per le quali è necessaria una presa in carico che esuli dal genere, ma che allo stesso tempo lo valorizzi con i suoi bisogni, le sue peculiarità, le sue emozioni. Se la società e il carcere saranno in grado di costruire una donna il cui valore non si misuri solo nell’essere moglie e madre virtuosa, forse sarà possibile riacquistare quel bisogno di restare degni che nello stesso percorso di provenienza è spesso mancato. Una seconda possibilità per sentirsi umane.