L’hanno soprannominato Decreto Dignità, eppure – andiamo subito al sodo – di dignitoso, nella mancata reintroduzione dell’articolo 18, ci si riscontra ben poco. Il provvedimento in oggetto è la nuova norma in materia di Lavoro introdotta dal governo italiano formato da Lega e MoVimento 5 Stelle, veri firmatari della manovra.
Il decreto dignità, articolato in diversi punti – dei quali tenteremo di analizzare i principali – prevede, anzitutto, l’aumento del numero di mensilità che un lavoratore può ricevere come indennizzo per un licenziamento ingiusto, tema certamente migliorativo rispetto alla situazione esistente prevista dal Jobs Act. Tuttavia, il diritto a essere reintegrato in azienda, come prevedeva l’articolo 18, è una garanzia di giustizia a cui, ancora, non riusciamo a sottrarci.
Come nel titolo di questo articolo, la mossa di Luigi Di Maio appare un tantino ruffiana quanto poco concreta, un contentino che, con un pizzico di volontà in più, avrebbe potuto risultare – a tutto tondo – un provvedimento degno di nota. Come annunciato, però, non tutto è da buttare.
Da cancellare, in realtà, c’è ben poco, a patto che quell’intenzione di tornare a dare forza ai voucher tanto cari al PD, messi all’angolo con l’attuale manovra, non si trasformi da cattivo presagio – caldeggiato da un po’ tutte le forze politiche – a una triste realtà. Vanno, invece, accolte con plauso le norme previste per combattere la delocalizzazione delle aziende all’estero, ossia contro quelle imprese che, entro cinque anni dal momento in cui ricevono un qualunque tipo di sostegno pubblico, trasferiscono le proprie sedi fuori dall’Italia, costrette, così, a restituire l’importo ricevuto all’erario maggiorato degli interessi.
Bene si deve dire anche del divieto di pubblicità del gioco d’azzardo. Tuttavia, suona stonata la statistica secondo cui il nostro Paese è tra quelli in Europa che maggiormente finanzia il sistema delle scommesse, ovviamente legali.
Allo stesso modo, la reintroduzione delle causali di licenziamento, per i contratti a tempo che superino i 12 mesi, va letta come una mossa a tutela del lavoratore. Basti pensare che, sempre grazie al Jobs Act e alla prevista cancellazione delle motivazioni d’assunzione per accordi a breve termine, le cause di lavoro sono diminuite circa della metà, segno che il lavoratore fosse scoraggiato e non tutelato dalla legislatura allora vigente, agli effetti a favore del solo padrone. Certo, tale manovra andrebbe estesa a qualsiasi tipo di contratto, tuttavia, dipendenti e aziende sono comunque scontenti, ovviamente per motivi diametralmente opposti. I primi temono un vertiginoso aumento dei contratti a breve scadenza, con un ricambio del personale ancora più veloce e continuo, i secondi, invece, sono messi in allerta dalla statistica appena enunciata. Un serio sistema di monitoraggio contro le prestazioni a nero, però, potrebbe scongiurarne l’ipotesi.
Sempre leggendo tra le righe del decreto, mentre i contratti a tempo determinato vengono resi più costosi, al contrario, non viene introdotto alcun tipo di incentivo alla loro trasformazione in accordi a tempo indeterminato. Il motivo? Lo stesso per cui la sfiducia in questo esecutivo non può non influenzarne negativamente il giudizio: i fondi disponibili. Difatti, per realizzare un tale incentivo, il governo avrebbe dovuto stanziare risorse di cui non dispone, e di cui nn disporrà neppure per tutti gli altri roboanti proclami della campagna elettorale. Un disegno, quindi, quello del binomio giallo-verde, a costo zero, una scommessa da vincere per salutare risultati soddisfacenti senza l’utilizzo di risorse da recuperare e spostare su temi, probabilmente, più cari a pentastellati e leghisti di quanto non sia quello del lavoro precario.
Peccato! Un testo, il Decreto Dignità, che si presenta in abiti buoni, ma che svela presto la sua natura poco garantista di quei diritti di cui milioni di lavoratori dipendenti non possono e non devono più fare a meno. Ora si attenderanno le correzioni alle Camere, probabilmente, le storpiature che ne peggioreranno la natura già claudicante.
Infine, a rendere maggiormente amara la questione pensa, ancora una volta e manco a dirlo, il PD, che insiste, al contrario, sulla linea dettata dal Jobs Act renziano, dimostrando la propria attitudine agli affari di destra ancor più della destra stessa. Un nuovo autogol per chi ha visto andare in fumo oltre la metà dei suoi consensi proprio da quella parte di popolazione che dalle politiche di sinistra vorrebbe tornare a sentirsi tutelata. Un nuovo schiaffo, quello dei dem, alla lotta alla disoccupazione e allo sfruttamento, con i loro numeri ingrassati di cifre irreali a far da cornice a un quadro di un Paese stanco di subire.
La dignità di chi lavora, dalle agende sui banchi di Montecitorio, è argomento depennato da tempo. Eppure, le pagine successive, ancora da sfogliare, non riaccendono speranze ed entusiasmi.