Un giorno da leone, dopo quattordici mesi da pecora: quando il Premier Giuseppe Conte sbugiardò il suo Vice Matteo Salvini nelle Aule del Senato, titolammo così il pezzo in apertura del mattino seguente. Finalmente, dopo un anno di anonima presidenza, l’avvocato del popolo fortemente voluto dai grillini – e accettato di buon grado dalla componente leghista ritrovatasi al governo con appena il 17% di gradimento – dimostrava carattere e capacità dialettica, polso fermo e leadership, doti che sino a quel momento erano parse non appartenergli.
Dopo il delirio del Papeete, in fondo, era facile demolire Salvini e il suo scarso senso istituzionale, la sua rincorsa ai soli scopi personali e le numerose rivendicazioni di stampo autoritaristico. Facile, ma non scontato. Di certo, assolutamente necessario per tentare di salvaguardare quel poco di faccia che potesse giustificare il ruolo di Primo Ministro. Da allora, sono trascorsi tre anni, tanti quanti gli esecutivi alternatisi a Palazzo Chigi – gialloverde, giallorosso, infine dei migliori – e le vesti indossate dallo stesso Giuseppe Conte.
Premier di centrodestra, premier di centrosinistra, capo politico dei 5 Stelle: se all’epoca faticavamo a riconoscerne la voce, oggi la presenza dell’ex Presidente del Consiglio ci è ormai familiare, complici, su tutti, quei giorni in attesa di una conferenza che potesse indirizzarci sul da farsi e la battaglia – anch’essa in Senato e anch’essa contro un Matteo, l’altro – che lo ha visto cedere, con riluttanza e malgrado una pandemia, il testimone a Mario Draghi. Ed è allora che tutto è cambiato: la caduta del secondo governo Conte, infatti, ha significato la consacrazione della sua popolarità. Il sistema contro Giuseppe, Giuseppe nonostante il sistema: è nata più o meno così la folta schiera di seguaci che l’avvocato foggiano è riuscito a radunare intorno a sé, un’attenzione inaspettata che ne fa, oggi, uno dei principali interlocutori politici del Paese, arrivato in sordina ma certamente da non sottovalutare.
E, così, ben consapevole della grossa opportunità che l’approssimarsi delle Amministrative rappresenta per la conseguente discesa in campo del nuovo MoVimento, il leader pentastellato non sta lasciando niente al caso. Conduce la campagna elettorale, fa ospitate, rilascia interviste. Ultima, ma solo in ordine cronologico, quella al Corriere della Sera che ha fatto storcere più di qualche naso. Anche il nostro.
Interrogato su Matteo Salvini e i suoi reiterati attacchi al Ministro Lamorgese, infatti, Giuseppe Conte ha bocciato in toto l’operato di colui che ai tempi scelse per il Viminale, quel Ministro dell’Interno finito a processo e a cui ancora si dà ampio credito per la gestione del Paese: «Ma lui che cosa ha fatto sull’immigrazione? – si è chiesto l’ex Premier – Già quando era un mio ministro cercai di fargli capire che un problema così complesso non si affronta con demagogia, facendo la voce grossa in televisione, sui giornali e sui social. Gli chiesi, senza successo, di migliorare il sistema dei rimpatri, ma non ci riuscì pur avendo i pieni poteri di ministro. Avrebbe dovuto lavorare con costanza nella cornice europea, dove non è mai stato troppo presente. Senza contare che i decreti sicurezza hanno messo per strada decine di migliaia di migranti dispersi per periferie e campagne. L’eliminazione della protezione umanitaria ha impedito a molti migranti di entrare nel sistema di accoglienza e ad altri di farli uscire in quanto non aventi più titolo, con il risultato che migliaia di migranti sono diventati invisibili. Insomma, Salvini da Ministro dell’Interno sui rimpatri e sull’immigrazione ha fallito. È un dato di fatto».
Tutto giusto, niente da eccepire. Tranne una cosa, forse la più importante: il cuore immacolato di Matteo ha fallito da solo? O il dato di fatto è che lo stesso Conte che oggi imposta la voce ieri chiedeva al suo Vice persino il permesso di parlare?
Ricorderete tutti la foto di rito in conferenza stampa. Era appena la fine del 2018, Giuseppe Conte e Matteo Salvini sorridevano fieri alle telecamere: #DecretoSalvini, sicurezza e immigrazione, recitavano i cartelli che stringevano tra le mani. Entrambi, a proprio modo, rivendicavano la paternità di un provvedimento che in tanti definivamo disumano. Non loro, però, non il governo gialloverde presieduto da quel capo politico che oggi parla di demagogia, di voce grossa in televisione, sui giornali e sui social. Quando, ai tempi, ne avrebbe preso le distanze? Quando avrebbe detto a Salvini che non era quello il modo? Quando lo avrebbe invitato a rivedere il sistema dei rimpatri, a evitare che si venissero a creare nuovi invisibili, a essere più presente in Europa se in Italia – nel solo 2019 – il Ministro ha collezionato ben 17 presenze al Viminale contro le 211 tappe tra eventi pubblici, comizi, cene elettorali, feste della Lega? Perché, se i provvedimenti non erano adeguati a rispondere all’emergenza, il Premier li ha firmati? Perché ha taciuto mentre Salvini lasciava centinaia di migranti a largo delle nostre coste solo per il gusto di fare il gradasso?
Suvvia, per una buona volta, diciamo le cose come stanno. Ammettiamo anche gli errori, se di errori si tratta: Giuseppe Conte – il primo – ha condiviso le politiche migratorie di Salvini, non le ha ostruite, non si è mai pubblicamente opposto. Ha lasciato, piuttosto, che il suo Vice gli strappasse la leadership giocando ai porti chiusi, alla caccia allo straniero, alla disumana guerra a chi rischiava la propria vita per salvare quella di un altro. Era l’unico collante a tenere insieme il governo nato dal più raccapricciante dei contratti. Colpevole, Giuseppe Conte, tanto quanto il Di Maio dei taxi del mare che oggi si dispiace – ma non troppo – per l’Afghanistan talebano.
Entrambi, Conte e Di Maio, erano con lui, al suo fianco e al suo fianco hanno fatto il buono e il cattivo tempo. Quei decreti, insomma, non portano il nome della Lega, portano i nomi del governo gialloverde. Poi, del governo giallorosso. Anch’esso presieduto dal Premier Conte. Anch’esso con Luigi Di Maio tra i principali protagonisti. Il governo scandalizzato dal Ministro dell’Interno degli orrori, eppure dimentico del memorandum con la Libia stipulato da Minniti, mantenuto da Salvini, rinnovato da Lamorgese. Tutto tacitamente. Tutto in segreto. Perché se qualcuno avesse capito il gioco, ne avrebbe scelto la versione originale, non quella fasulla.
Quei decreti, è tempo di dirlo, portano persino la firma di Sergio Mattarella, il Presidente della Repubblica che ha definito sconcertante sentire in Europa chi parla di diritti afghani e poi nega l’accoglienza. Lo è, ha ragione, ma perché quando ce n’è stata l’opportunità nessuno è intervenuto? Perché i provvedimenti salviniani sono ancora lì? Perché la Bossi-Fini ancora regola l’immigrazione nel nostro Paese? Eppure, di Primi Ministri, di figuri più e meno probabili al Viminale se ne sono susseguiti parecchi, ma guai a mettere mano al diritto. Anzi, a riconoscerli i diritti. Conte, lo stesso Giuseppe Conte che oggi guarda a un nuovo MoVimento e quel MoVimento che allora era così ricco di amorosi sensi leghisti hanno avuto l’occasione di rimediare: non lo hanno fatto. Ne hanno firmato, ben attenti ad attendere l’esito delle Regionali, una versione più blanda, tanto nella forma quanto non nella sostanza.
Il Decreto Immigrazione che politica e giornali hanno venduto come cancellazione dei Decreti Sicurezza, infatti, è stato in realtà soltanto la modifica di alcuni dei loro punti così come su richiesta della Consulta e del Presidente della Repubblica. La normativa – lo ribadiamo a memoria nostra e di Conte, che pare averne poca – ha introdotto disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare e ha modificato gli articoli 131-bis e 588 del Codice Penale. Nei fatti, assicurandosi di non cancellarli, ha messo mano ai Decreti Sicurezza lasciandone intatto l’impianto narrativo.
Dall’intervento in mare alle ONG, dal permesso di soggiorno ai CPR, anche se ci hanno raccontato il contrario, il processo di criminalizzazione di chi salva vite è rimasto invariato. In qualche modo, l’intero sistema lo è. Il Decreto Immigrazione – non lo ammetteranno mai – non è stato la rivoluzione che ci hanno venduto. Non ha cambiato l’assetto persecutorio e securitario della nostra legislazione, non ha cambiato l’accezione negativa del soccorso in mare, non ha cambiato le politiche in materia. Non ha cambiato Giuseppe Conte. Che dapprima si è servito dei Decreti Sicurezza per mantenere salda la poltrona sostenuta dall’esasperazione anti-migratoria e poi si è spostato su un terreno meno scivoloso, leader – in questo sì – di quel movimento, numeroso in Italia, del viva Salvini, abbasso Salvini a seconda dell’umore del momento.
E, allora, alla Sua domanda – «Ma lui che cosa ha fatto sull’immigrazione?» – rispondiamo noi, caro Conte: quello che ha fatto Lei. Ha messo per strada decine di migliaia di migranti dispersi per periferie e campagne. Ha impedito a molti di loro di entrare nel sistema di accoglienza e ad altri di farli uscire in quanto non aventi più titolo, con il risultato che in migliaia sono diventati invisibili. Insomma, come Lei, Salvini da Ministro dell’Interno sui rimpatri e sull’immigrazione ha fallito. Ed è un dato di fatto.