Perché la morte è l’ultimo tradimento. C’è nella nostra cultura contemporanea un fortissimo, disperato tentativo di esorcizzarla, di rinchiuderla oltre i confini del detto, nel silenzio. Il tentativo è quello di tradire la morte, di rimuoverne la presenza attraverso i riti della modernità: la corsa al progresso, all’iperproduzione, l’impiego vertiginoso del tempo nell’illusione che in quella vertigine possano precipitare le immagini e i segnali del fantasma temuto.
Qualora non le abbiate riconosciute, queste parole appartengono ad Annibale Ruccello, l’enfant prodige della nuova drammaturgia napoletana, prematuramente scomparso nel 1986. Ed è a queste precise parole che si sono ispirate Daria D’Amore, Chiara di Bernardo e Giovanna Landolfi, le registe dello spettacolo teatrale Death Parade, le quali hanno deciso di omaggiare il drammaturgo stabiese, ispirandosi liberamente alle sue opere più famose e portando in scena sabato 13 maggio alcuni dei suoi personaggi più riusciti.
Contrariamente a quanto espresso dal brano precedente, Death Parade rappresenta un’asfissiante, meravigliosa e struggente processione di piccole solitudini, di morti private, di frenesie soffocanti. Nell’ambientazione suggestiva e ammaliante dell’ex manicomio di Aversa, si realizza un vero e proprio miracolo. Il pubblico, attraverso la formula del teatro itinerante, “compie” lo spettacolo, insinuandosi e spiando le vicissitudini strazianti dei personaggi di Ruccello. A pochi passi dal delirio mistico e umiliante di Maria di Carmela – di Piccolo delirio manicomiale – lo spettatore viene quasi colpito dai pezzi d’arancia che la donna sputa. Assiste impotente alla celebrazione di un essere umano in pezzi, corroso dalla sua stessa follia, emarginato e rinchiuso. Nascosto, epurato.
Lo stesso destino tocca a Jennifer, la protagonista transgender del dramma Le cinque rose di Jennifer, con la quale chi guarda viene rinchiuso in una sala del complesso, mentre si compie il desolante e torturante dialogo telefonico in cui ella mostra l’inconsistenza dell’amore che la sta uccidendo per un uomo che non tornerà, per un uomo che non l’ha mai amata. Siamo persino oltre il buco della serratura, a meno d’un metro dal divano sul quale si consuma la solitudine di un’anima che non trova il proprio posto nel mondo.
E tra una sposa che si stringe, colpevole e sorda, al corpo morto del marito e un prete omosessuale che viene smascherato da una sua vecchia e infiammata amante, si realizza l’umano, troppo umano, rituale di fuga e di menzogna degli uomini rispetto alle morti interiori a cui sono condannati in vita, in questo deserto che è ormai la nostra esistenza, in cui noi viaggiamo, come degli ospiti. In un’ultima stanza, s’incontrano sacro e profano, sempiterne categorie di ipocrisia e analisi. Per gli addetti ai lavori, sono immediati i rimandi ad Anna Cappelli e Ferdinando, capolavori dell’autore campano, così diversi nelle ambientazioni storico-sociali, ma così vicini nel colpevole tentativo di sfuggire all’inferno privato dei vivi. Così vicini da toccarsi, in un ultimo dolorosissimo incontro, al termine di una commovente sfilata di uomini e donne, ai margini della propria stessa vita, in un ammaliante mosaico di dolore, patologie e poesia. E così il viaggio si conclude, proprio laddove tutto era cominciato, nell’angosciante vicenda che accerchia le infelici vite di Gesualda, Don Catello e Donna Clotilde.
Nelle voci, nei volti, nei gesti di Federica Flibotto, Ivano Bruner, Luigi Palmisano, Daria D’Amore, Chiara Di Bernardo e Giovanna Landolfi, si riscopre la portata del crudo e geniale lavoro di Annibale Ruccello, costantemente impegnato nell’atto del denudare e del celebrare, scelto come punto di partenza e d’arrivo da questi giovani talenti della scena napoletana.
Tra le voci del pubblico, s’è udito, al termine del primo spettacolo, se Ruccello fosse stato qui, avrebbe pianto. Come dargli torto.
Donna Clotilde: “‘Na vota… ‘na vota ‘e muorte turnaveno pe’ ffa’ cumpagnie ‘e vive… ‘Na vota ‘e muorte stevene assieme ‘e vive… Mo se ne fujeno… Mo ‘e muorte… ‘E muorte so’ lloro ca se piglieno appaura d’e vive… Ah! Poveri muorte…”
Gesualda: “Poveri vivi!”