Nel settecentenario della morte di Dante Alighieri, minimum fax pubblica, nel mese di settembre, un volume singolare intitolato Dall’inferno, nel quale confluiscono, come attraverso un vortice a imbuto rovesciato, due racconti lunghi: Umè, firmato Cosimo Argentina, e Bestïn di Orso Tosco. Sono due reportage letterari che offrono al lettore uno spaccato dell’inferno dei viventi, quel posto che si fa quotidianamente teatro della cronaca italiana, trattato da entrambi gli autori con i guanti della letteratura. Una letteratura che si presenta come creatura “a due teste”, o meglio dalla testa d’acciaio e le gambe fatiscenti.
L’acciaieria Ilva di Taranto, con i suoi altiforni sputafuoco, è la testa di questo volume, è lo scenario infernale del racconto Umè, nel quale raminga un giovane operaio al suo primo giorno di lavoro. Lì per l’affiancamento e intenzionato a cercare qualcuno che lo possa aiutare, senza troppi preamboli viene risucchiato dal Siderurgico che, con la sua onnipresenza di tubi, è un’entità regolatrice di tutto ciò che succede sotto quella porzione di cielo notturno e tumefatto, dal quale non smette di colare pioggia sporca. Il buio si alterna a zone illuminate violentemente con la luce degli alogeni, mentre intorno a lui passano ombre ingobbite dallo sguardo spoetizzato e minaccioso, si alzano spruzzi di fiamme e il suolo trema al suono di catene.
Il protagonista viene sballottato nei vari reparti, tutte terre di nessuno, dove a nessuno importa ciò che va cercando, dove i dannati, ora solo apparizioni ora ben definiti in catarifrangenti e denti guasti, lo umiliano e lo ignorano, fanno gruppo e continuano il lavoro come macchine senza sangue. Gli anziani stanno più alla rassegnata. Geriatria cannibalizzata dallo statuto dei lavoratori. Quelli più giovani, non ancora in grado di governare la rabbia sociale, scalciano. Tutti, però, sembrano più vecchi di venti, trent’anni, e tutti si esprimono nel dialetto italsiderino di Taranto, come emblema di appartenenza e perdizione di chi condivide la stessa eterna e derisoria scommessa: si può accettare di morire per lavorare? Non si lavora per vivere? Non è così che ci hanno detto che funziona?
Mentre gli altri parlano tutti uguali, ridono di risate amare, bestemmiano, il protagonista fa attenzione a non utilizzare lo stesso slang di quegli uomini nelle conversazioni con loro. Anche da questo si capisce che è il nuovo arrivato, dal suo linguaggio poco circoscritto alla “tribù” e pure dal fatto che l’operaio non possiede un nome, a nessuno interessa saperlo, e invece ce l’ha persino chi non passa di lì, chi compare in un dialogo esprimendo una fugace opinione e chi è appena finito all’ospedale, nel reparto grandi ustioni, per uno schizzo di bramma negli occhi.
«Ora sta il fatto di Pascale! Si è fottuto gli occhi ed è capace che ci rimane in quell’ospedale! È tutto uno schifo! Lo stabilimento mena nell’aria polveri sottili e tutta la frittura più cancerogena di ‘stu munne!». Sempre la stessa perversa canzone, un motivetto che si ripete: qualcuno che finisce in ospedale, qualcun altro che si ammala, che ha figli, mogli, parenti ammalati. Una guerra dei poveri, la loro, e una lotta di sopravvivenza alla morte, su tutti i fronti, da non avere scampo. Un comunque meglio a lui che a me e i potenti che se la ridono in balconata.
Masticando impasti di fango e cenere, come un pezzo di carne marinata, il giovane operaio si trova allora in una rivolta notturna per l’ennesimo incidente sul lavoro, dove rumoreggia la rabbia nuda delle tute bagnate ma, sullo sfondo, i tuoni e le scintille dell’acciaieria stanno già vincendo su ogni cosa, su quella sommatoria umana che urla disordinata, tra le sbarre della mostruosità ferrosa dello stabilimento. È l’espressione del dolore del popolo dell’acciaio. È il grottesco della miseria.
E magari quel ragazzo nella folla fracida è davvero Mino Palata, quello dell’affiancamento, quello che cercano sempre tutti e che tutti rispettano. Lo puoi trovare o non lo puoi trovare mai, gli dicono, oppure puoi provare domani, sempre se esiste un domani all’inferno; e se esiste, suona più come una minaccia.
Bestïn è il racconto di coda del volume. A differenza del primo che si muove in un unico capitolo denso, liquefatto, questo è ordinatamente suddiviso in giorni e in ore, secondo una scomposizione meticolosa che può riflettere una delle ossessioni del protagonista, Orazio Lobo, un uomo con disturbi psichici che cammina per i vicoli di Genova con un compito, dal suo punto di vista, imprescindibile. Dopo un incidente nel quale ha perso la memoria, durante il coma che ne è seguito, ha potuto apprendere la sua missione: soppesare le parole e, in caso di instabilità, provvedere al riequilibrio del territorio. In base alla grammatura delle lettere, le stacca dai volantini o le cancella dai muri, scegliendo quelle da portare nel suo appartamento per depurarle e liberare così la città da ogni pericoloso sbilanciamento.
Come quello del giovane operaio, il viaggio di Lobo è di solito notturno, ma il suo è un cielo aperto nonostante i vicoli stretti della città, costruiti così vicini perché i palazzi, almeno loro, non si sentano abbandonati. Genova è un’imbarcazione precaria, cerca lo spazio spingendosi in alto per non naufragare. Tutto in questo luogo è verticale. Perfino le nuvole, perfino la musica.
Quando, però, crolla il Ponte Morandi, simbolo del quartiere e direttrice suprema di qualsiasi punto di fuga, Orazio modifica con urgenza le proprie teorie concentrando il lavoro, stavolta, verso il vuoto lasciato dalle parole mancanti. Attraversando una Genova fatiscente, il protagonista percorre vicoli e discese sotto gli occhi infastiditi di chi ha ancora le mani nelle macerie, con una vecchia carriola arrugginita a raccattare tutte le parole possibili per riempire il vuoto di uno spazio che altrimenti, così come è successo per il ponte, potrebbe finire per autodistruggersi.
L’equilibrio di un’intera città collassa come in un’allucinazione collettiva, e nel frattempo i cittadini vengono sfollati per il loro bene. Orazio è uno di quelli che la casa l’han persa per sempre ma nel suo spaesamento, che è un po’ simile a quello dell’operaio di Umè, riesce a portare a termine la notte, così lunga quando si è diretti verso un posto che non è casa. E dopo avergliele date tutte perché appartengono a Genova, le parole del racconto si avviano verso l’alba di un domani che qui, invece, ha il vago sapore di una promessa.
Collegate da un graffio non rimarginabile, ai due estremi di una penisola ammaccata, la città-fabbrica di Taranto ha il volto di un ricatto, mentre la Genova dalle gambe sottili non riesce a reggere l’incuria. Il tempo della fine è inteso in maniera differente: nel secondo reportage arriva improvvisamente, nel tempo di un crollo, tempo che la scrittura porta avanti nelle ore per non essere complice dell’indifferenza. Nel primo reportage, invece, i personaggi convivono con una fine che dura da decenni e, allo stesso tempo, nel testo la materia infernale si consuma tutta in una catastrofica notte.
Gli stili dei due autori non possono essere più opposti: aspro e marcatamente dialettale è quello di Argentina, con una formula espressionista che dà senso immediato e si rifà ai quadri deliranti di Munch ma su un fondale violentemente meccanicizzato, disumanizzato, dunque anche futurista. Visionario e felice è, di contro, lo stile di Tosco, che preserva le parole e accenna anch’egli un’espressione vernacolare, anche se Orazio il genovese non lo sa più pronunciare. Entrambi gli scrittori si rifanno alla lingua e ai territori nei quali sono cresciuti e l’incontro tra i due reportage avviene nel momento in cui la letteratura si fa liberamente cronaca e viceversa.
I racconti, dunque, si accordano nella tragedia di due città periferiche lasciate a se stesse sotto gli occhi del mare. Così, di fronte a scenari apocalittici che ingannevolmente sembrano esclusiva materia di fiction, si insinua una frase tratta dall’ultimo libro di Graziano Graziani: Se così fosse, per noi, sarà come se non fossimo mai esistiti.