Quando arrivi a Trieste, ad accoglierti c’è il mare e la principessa triste a tutti nota con il nome tenero di Sissi. Un po’ più in là, oltre la piazza che porta il nome di un auspicio non ancora realizzato, Unità d’Italia, c’è invece la statua di Massimiliano d’Asburgo-Lorena I Imperatore del Messico, colui che desiderò e realizzò la costruzione del Castello di Miramare con il parco e le stanze eleganti, ma al tempo stesso fiere, austere come la costruzione in sé, a testimonianza del rispetto che una potenza di terra, come l’Impero Austro-Ungarico, avesse per l’elemento liquido.
Trieste è così e come tale si presenta: elegante, orgogliosa, a tratti rigida, bella come un bacio dato dall’Italia sulla guancia sinistra dell’Europa e, al contempo, l’unico luogo dell’intera penisola in cui identità fa talmente rima con diversità che pronunciare la parola patria non è reato. Urbe levantina dalla psiche instabile, agitata da presenze letterarie del calibro di Umberto Saba, James Joyce, Aron Hector Schmitz – che, non a caso, volle mutare il suo nome in Italo pur sempre conservando il suo retaggio Svevo –, pervasa, infine, dall’aroma di un caffè così profumato e sincero da potervi ritrovare Napoli.
Patria di una romanità che si è mescolata successivamente ai tratti somatici, culturali e dunque linguistici della mitteleuropa, dell’influenza giudaica, slavo-ortodossa, infine italiana, rimanendo però pur sempre Trieste nella sua essenza non multiculturale, ma cosmopolita, dimensione capace di generare forme di convivenza evoluta in cui tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge in quanto diversi per natura e non per discriminazione razziale o provenienza.
Fasi che, tuttavia, anche una città come Trieste ha attraversato e da cui oggi torna a essere minacciata: prova ne sia il deplorevole episodio legato all’esclusione su base razzista, fortunatamente evitata in extremis da parte della Procura, degli atleti africani dalla mezza maratona cittadina di qualche tempo fa o il cretinismo tutto leghista che ha recentemente visto una consigliera di circoscrizione d’origine siciliana essere pesantemente additata come meridionale da rispedire a casa propria, come se l’Italia intera non lo fosse già, per consentirle di andare a prendere le difese della professoressa Dell’Aria sospesa, ma poi fatta rientrare in servizio, per non aver impedito a un gruppo di studenti di esercitare il suo legittimo diritto di critica espressa nei confronti dell’operato di un governo da cui non si sente rappresentato.
Ma nonostante tutto, Trieste resta comunque un faro, come quello della Vittoria che svetta sulla città di notte, a voler segnalare la sua presenza a chi vi si avvicina, a chi si inchina nel passarle accanto per gustare insieme a lei un calice di tocai con del pane, una fetta di prosciutto tagliato al coltello o dei ćevapčići, dai rimandi bosniaci nel nome e nel gusto di un mondo balcanico che porta tra le strade del centro quella quota di componente ottomana assente tra le architetture storiche delle sue comunità.
Trieste è pertanto ebrea, ortodossa, protestante, cattolica e al tempo stesso tutte queste cose distinte le une dalle altre, benché fuse in un’unica idea di collettività. Città immediata nel periodo austro-ungarico, ha saputo nutrirsi delle differenze che l’hanno costruita senza omologarle, ma amalgamandole in una proposta di collaborazione operosa tesa a far progredire e difendere il porto, luogo simbolo e simultaneamente essenza vitale di una realtà affacciata come un balcone sull’Adriatico con la prua rivolta a Sud.
Quel Sud da cui arrivò la minaccia più grave, quella dell’occupazione titina violenta e vigliacca al tempo stesso, che tentò di imporre a guerra ormai finita, senza riuscirci, le machiavelliche politiche assimilatrici della cosiddetta fratellanza italo-slava, inaugurando così la stagione feroce e macabra dell’esodo istriano-dalmata e delle foibe, a ripicca di quanto pochi anni prima, dal 1938 al 1945, il regime nazifascista aveva fatto a danno della componente sia ebraica, ma anche slava della popolazione la quale, una volta discriminata, ebbe due vie di salvezza possibili da percorrere, la rinuncia a se stessa, alla propria identità linguistico-culturale e ai propri beni, o la rinuncia alla patria che Trieste invece, alla fine di tali vicende, poté ritrovare pienamente, ma solo nel 1975 con la sottoscrizione degli accordi Osimo da parte del Maresciallo.
Trieste non è in Europa, Trieste è l’Europa e in tal senso un grande suggerimento di come il Vecchio Continente potrebbe venire a configurarsi se solo riuscisse a uscire dalle logiche di annessione su base monetaria a cui è stato ridotto negli ultimi due decenni. Trieste, infatti, resiste e con il suo piccolo melting pot dallo sguardo rivolto verso le Nuove Vie della Seta si erge a promemoria per tutti, soprattutto per l’Italia, a cui è ombelicalmente legata e per questo attenta nel ricordarci che se vorremo provare realmente a riaverci non potremo che tornare a intraprendere le rotte di mare a cui collegare quella di terra, ripercorrendo le strade di Marco Polo e di tutti quei mercanti veneziani, genovesi, pisani, amalfitani che hanno reso la Penisola un micromondo vasto, ma soprattutto così vario al suo interno da consentirci oggi di poter avere la fortuna, l’onore e l’onere di custodire tra le mura di casa più di 50 siti annoverati tra quelli degni di essere tutelati dall’UNESCO in qualità di patrimonio immobile, a cui si aggiungono quelli che si configurano come eredità mobile e in alcuni casi persino immateriale di quella umanità che da sempre ci attraversa.
È importante dunque sviluppare una visione unitaria di sé, ma che ci valorizzi in quanto molteplici, in quanto capaci di agire e interagire con il resto del mondo in assenza di regole imposte da altri. Sotto questo punto di vista, non è un modo di dire, l’Italia è Trieste e Trieste è l’Italia, ovvero una realtà cangiante, storicamente ingovernabile, ma miracolosamente capace di autogestirsi adattandosi a ogni circostanza indotta o prodotta da eventi programmati e al contempo vissuti nella loro connaturata mutevolezza, così come sono mutevoli eppur sempre uguali i moti ondosi del mare che accarezzano l’intero Stivale, come la libera terra di Giustinopoli bagnata fin nel suo cuore pulsante, lambendo prima il molo audace, le monumentali piazze elegantemente asburgiche, per poi attraversare le vie sinuosamente kocher del suo nucleo fondativo, fino a risalire il Colle di San Giusto e la Cattedrale che vi svetta in cima, adornata con i versi del Carducci rivolti […] al bel mar di Trieste, a i poggi, a gli animi […] di San Giusto sovra i romani ruderi! […] gemma de l’Istria, e il verde porto e il leon di Muggia; […] fin dove Pola i templi ostenta […] in faccia a lo stranier […]: Italia, Italia, Italia!
Ecco, dunque, cos’è Trieste, un grido che rivendica identità, un’identità sua, un’identità tutta nostra, partorita dal grembo fluido che ha dato forma, nei secoli, a una cittadinanza interattiva da cui trarre spunto, oggi più che mai, per provare a riprogrammare un’intera nazione, abitata da un popolo fatto di tanti altri popoli uniti da un’idea di convivenza cosmopolita ancora da realizzarsi, ma che non dobbiamo mai smettere di rivendicare con voce unica, da un capo all’altro di questo Bel Paese.