Se l’uomo occidentale ha una prerogativa, di certo è quella di imporre con innata arroganza le proprie idee e i propri bisogni anche a chi non ne condivide i principi. D’altronde, non si tratta di una novità, la storia è stata fatta quasi completamente dai soprusi dei più potenti ai danni di chi di progresso – in termini capitalistici, si intenda – non voleva saperne. E lungi dal considerare il progresso come una disgrazia, esso non sempre significa evoluzione, soprattutto quando le sue conseguenze costituiscono danni irreversibili e, soprattutto, quando questo è imposto.
Se il mondo è stato costruito così, con il Vecchio Continente al centro di territori da conquistare e popoli inferiori da sottomettere, qualche volta la modernità ci sorprende con le inaspettate vittorie dei popoli da sempre sconfitti. È il caso dei Lakota Sioux, i Nativi Americani che abitano una riserva del North Dakota che, dopo tre anni dalla sconfitta, hanno riconquistato il diritto di proteggere le loro terre sacre dall’oleodotto Dakota Access Pipeline.
Tutto aveva avuto inizio nel 2017, quando l’amministrazione Trump appena entrata in carica aveva accelerato la costruzione dell’oleodotto precedentemente bloccato da Obama. Il sistema avrebbe dovuto trasportare il petrolio estratto in North Dakota fino alle raffinerie dell’Illinois, attraversando quattro stati per 1886 chilometri. La protesta dei Sioux era cominciata con il progetto che prevedeva il passaggio della conduttura sotto il fiume Missouri, pericolosamente vicino alla riserva della Standing Rock. Ma le proteste di tre anni fa erano servite a poco, finite con l’autorizzazione del Presidente a procedere. All’epoca, però, gli oppositori avevano promesso una battaglia legale e adesso sembra arrivato il loro momento: pochi giorni fa un giudice federale ha richiesto una nuova valutazione dell’impatto ambientale che il funzionamento dell’oleodotto comporta.
La riserva della Standing Rock Sioux Tribe si trova a meno di due chilometri dalla conduttura e una fuoriuscita di petrolio non solo danneggerebbe l’ecosistema della zona, ma inquinerebbe le acque da cui la tribù trae nutrimento, distruggendo così le sue terre sacre. È breve e tragica la storia degli Indiani d’America, che per secoli hanno combattuto le ingerenze degli invasori stranieri e che neanche oggi, nel pieno della modernità, riescono a far valere i propri prevaricati diritti. Soprattutto quando si tratta di diritto di culto o di preservare territori sacri, diritti considerati molto meno rilevanti degli interessi economici, specialmente quando in ballo c’è l’oro nero.
Delle insistenti proteste, però, non giovano solo gli abitanti della riserva perché la presunta pericolosità dell’oleodotto causerebbe danni ambientali non indifferenti. È proprio per questo che il tribunale federale di Washington ha revocato i permessi del Dakota Access Pipeline e ha ordinato una revisione complessiva, considerando incompleta la precedente e decretando che il progetto viola la legge sul diritto ambientale statunitense. Eppure, sebbene un possibile disastro ecologico coinvolga una grande fetta della popolazione americana, ancora una volta è una bistrattata minoranza indigena a lottare contro tutti per il bene di tutti. Una vicenda che ricorda molto gli incendi in Amazzonia della scorsa estate, durante i quali solo le popolazioni indigene della zona combattevano e lanciavano appelli in favore della salvezza dell’intero pianeta.
Non a caso, infatti, spesso i diritti ambientali e quelli dei Nativi si incontrano e si confondono. D’altronde, i popoli indigeni vivono a stretto contatto con la natura e questo li rende i più vulnerabili ai disastri che stiamo progressivamente causando. Eppure, allo stesso tempo, sono anche i popoli meno rappresentati, nonché i meno colpevoli dei cambiamenti climatici e dei possibili danni che loro, con uno stile di vite ecosostenibile, non contribuiscono a causare.
Siamo ancora molto lontani dal garantire a queste popolazioni ingiustamente tormentate il legittimo riconoscimento. Per adesso, la tribù dei Sioux si gusta la sua doppia vittoria dopo più di tre anni di faticosa battaglia: non solo l’oleodotto resterà inattivo per vari mesi finché non verranno fatti nuovi e più affidabili accertamenti sulla sua funzionalità, ma la Corte ha stabilito anche che la sua presenza sul territorio viola la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni. Questa dichiarazione ha un valore inestimabile perché ha consentito il riconoscimento della riserva come luogo sacro e la legittimità del culto di un popolo la cui storia è stata segnata dalla perdita delle proprie terre e dalla rinuncia forzata alle proprie credenze, talvolta persino della propria esistenza.
Ma mentre, per adesso, giustizia è stata fatta per ambiente e minoranze, è bene che l’orgoglioso Occidente inizi a riflettere sulle conseguenze delle sue azioni e che prenda atto che a volte il progresso è solo una corsa al denaro e non il possesso di conoscenze superiori con le quali le decisioni prese sono sempre giuste.