Prima di morire, voglio restituire tutto. Che affondi il mondo sbagliato e riporti la vita. – Lidia Yuknavitch, L’impulso
È giunto in Italia L’impulso, romanzo appena pubblicato da nottetempo della scrittrice australiana Lidia Yuknavitch (con traduzione di Alessandra Castellazzi), già autrice di La cronologia dell’acqua (nottetempo, 2022), della raccolta di racconti Lasciarsi cadere (nottetempo, 2023) e de Il libro di Joan edito Einaudi nel 2019.
Dedicato a tutti i bambini e le bambine che attraverseranno la soglia, tutti i generi di corpo e di anima, tutti gli orfani e i disadattati, tutti i migranti e i rifugiati, di qualsiasi genere immaginabile, tutte le bellissime creature perse o ritrovate che cercano una riva, una casa, un cuore, L’impulso narra la storia di Laisvè, una bambina che scappa dalla propria terra e nel viaggio in mare perde la madre.
Separata poi dal padre e dal fratellino neonato, deciderà di affidarsi ai propri muscoli, alla propria forza interiore e alla vita stessa. Si tufferà in acqua e, attraverso un viaggio nel tempo, nei luoghi e con e dentro persone che incontrerà, Laisvè riuscirà a travalicare il limite o ciò che convenzionalmente si intende come tale, comincerà a guardare e a guardarsi dal fondo e dalla superficie, con lo sguardo speranzoso ed entusiasta, terrorizzato e tetro.
La scrittura di Yuknavitch si rivela dunque un flusso, un oceano a tratti gelido, a tratti tiepido, eppure, nonostante la difficoltà nell’immergersi in temi esistenziali complessi e spaventosi, abbandonarsi alla lettura risulta la scelta più naturale. Nuotare dentro il gorgoglio della sua scrittura, lasciarsi andare alla contraddizione feroce e splendida non risulta né una colpa né una vergogna, ma un connettersi con la vita stessa, un viverla accettando che il fiato può mancare o alimentare, ma rinunciare alla fatica di nuotarci dentro, forse sì, è il movimento che diventa stasi irrimediabile, morte senza possibilità di rinascita.
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. È una frase di Benjamin citata prima che il romanzo cominci. Rispecchia in pieno il gesto che pare compiere l’intero testo: sporgersi sulle soglie, procedere con la penna, il cuore, l’animo all’ascolto e all’espressione del margine e dei confini. Non sottovalutare nemmeno per un attimo la pericolosità della disumanità.
L’impulso, infatti, prova a immaginare, illustrare, dipingere il noi che avremmo potuto essere ricordando con speranza e a volte con terrore che le storie viaggiavano tramite noi e avrebbero potuto condurci ovunque, svoltare in qualsiasi direzione. È un invito, un richiamo ottimista e tenace a ciò che ognuno può fare nel proprio piccolo mondo, che è una degna parte del mondo tutto, ogni volta che sente l’altro come se stesso e prova a trattarlo meglio e mai peggio di come si tratterebbe.
La storia, le storie possono ancora e sempre condurci ovunque, e possiamo imboccare una direzione più umana della disumanità che imperversa dilagante.
L’impulso, insomma, è nuotare tenendo in tasca un po’ di fiato, di forza e lungimiranza per chi nello stesso oceano può sparire, annegare. È abbracciare uno sconosciuto con mani intrecciate le une alle altre alla ringhiera in una piccola frazione di tempo di meraviglia. E non è una cosa da poco al mondo.
Nel romanzo pare ogni cosa accenda l’immaginazione: il sorriso sul volto di un operaio alla fine di una giornata di lavoro per costruire un futuro abitabile per tutti, o il volto di un bambino che crede in qualcosa di più grande di sé, la bellezza contenuta nella mano come un mondo, una biglia. E la libertà. Nel lettore però non accende l’immaginazione ma il seme della vita, il fuoco del dubbio concreto che, se è possibile l’immaginazione, è possibile anche la realtà. La realtà di un mondo in cui non si piange perché un bambino muore nella violenza di un CPR o in un mare senza fondo. È possibile piangere anche solo per lo stupore di bambino che ride, libero.
Yuknavitch pensa, vive, sente, scrive attraverso l’acqua. L’acqua che sospinge, l’acqua che respinge, l’acqua che accarezza, l’acqua che trasporta, l’acqua che trasforma, l’acqua che affascina. Acqua come viaggio intimo e comune, seduzione e fascino goccia dopo goccia, miglia dopo miglia, come la vita. La vita che travolge, stravolge, insiste, persiste, smuove, scava, spaventa, uccide, vivifica l’essere umano. Che a volte nemmeno si sente un essere e smarrisce l’umano. E se l’uomo si perde nella sua finitezza, l’acqua, la vita, le soglie gli ricordano l’infinito come l’impossibile rinuncia dell’esistenza.
La ferocia e lo splendore talvolta si toccano, coesistono, e miracolosamente convivono soccorrendosi l’un l’altra. Ne La cronologia dell’acqua Yuknavitch ha scritto che è difficile fare una frase. È il confine fra la vita e la morte. Ne L’impulso pare spiegare quanto possa essere autentica questa affermazione. Quanto sia imprescindibile pensare, ripensare, scrivere, riscrivere. Quanto sia vitale stare dentro il confine fra la vita e la morte. Nuotarci in mezzo, soffrirne fino a soffocare, gioirne fino all’estasi. Quanto sia fondamentale non distogliere lo sguardo quando la violenza e la disumanità conducono alla pazzia. Quanto sia importante guardare, analizzare, strapparsi pezzi di anima per approfondire la disumanità e provare a essere senza tregua e senza riserve il suo contrario.
Dunque L’impulso è una storia, o meglio la somma di ogni frammento disvelato che non nasconde la polvere sotto il tappeto, ma al contrario, con la lente d’ingrandimento, nuota attraverso la vita, guarda in faccia la morte, soppesando in ogni istante qualcosa di invisibile come l’amore, che ne La cronologia dell’acqua Yuknavitch definiva come una morte viva. E la tiene in vita.