Se il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, come ci ricorda Dostoevskij, l’Italia sta sicuramente dimostrando di non essere per nulla civilizzata. Mentre al di fuori degli istituti penitenziari ci si avvia verso la cosiddetta fase 2, sognando una lenta ripartenza del sistema economico e sociale, all’interno delle carceri l’emergenza è ancora in piena diffusione.
Il numero dei detenuti si sta lentamente abbassando: al 21 aprile si contano quasi 54526 presenze a fronte delle iniziali 61200, tuttavia si tratta di una diminuzione per nulla sufficiente ad affrontare la crisi poiché ancora lontana dalla capienza regolamentare. Nel 2013, in seguito alla sentenza Torreggiani – caso nel quale il detenuto del carcere di Busto Arsizio aveva sperimentato sulla propria pelle gli effetti di un sovraffollamento del 249% –, al fine di evitare la condanna definitiva della CEDU per violazione dei diritti umani, l’Italia raggiunse i 52mila reclusi, un trend che successivamente non ha saputo mantenere. Anche la scorsa settimana, dopo il ricorso presentato da parte di due avvocati il cui assistito è un ospite dell’istituto di Vicenza al quale è stata negata la possibilità degli arresti domiciliari, il Consiglio d’Europa ha chiesto spiegazioni al governo sulle misure che sta adottando per fronteggiare il rischio di trasformare le carceri in veri e propri lazzaretti. Spiegazioni che il Ministro Bonafede ha tenuto a mantenere segrete, come se non si trattasse di responsabilità di cui dar conto all’intera collettività.
Ma il calo di presenze di cui parliamo non è dovuto all’applicazione delle irrisorie misure stabilite con il Decreto Cura Italia che probabilmente verranno totalmente confermate senza alcuna modifica in fase di conversione, bensì all’applicazione elastica di norme già presenti nel nostro ordinamento e alla concessione di benefici già applicabili in condizioni di normalità seppur raramente applicati, mettendo in luce la mancanza di volontà politica di porre una fine definitiva al sovraffollamento: le misure adottabili esistono ma si preferisce stipare in carceri disumane chi ha commesso un reato privandolo non solo della libertà, ma anche della sua dignità. Inoltre, la diminuzione dei reclusi è disomogenea sul territorio nazionale e risulta insufficiente soprattutto nelle regioni in cui il contagio registra una più ampia diffusione.
Non a caso, nonostante il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte assicuri che per le carceri sono state utilizzate tutte le massime precauzioni per evitare la propagazione del virus, i numeri dei contagi crescono: al 21 aprile si contano 133 positivi tra la popolazione detenuta e più di 200 tra gli operatori, in particolare agenti della penitenziaria e personale medico. Si contano, inoltre, due morti tra i reclusi, uno nel carcere di Bologna e uno in quello di Voghera. A questi si aggiunge la prima vittima da coronavirus della REMS (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) di San Maurizio Canavese, a Torino. Dunque, checché ne dicano il leader della Lega Matteo Salvini e il procuratore Gratteri, il carcere non è un luogo impermeabile e riparato dal contagio. E sembra non essere neppure un luogo riparato dai soprusi e dalle ingiustizie, secondo quanto emerso nelle ultime settimane.
Dopo le proteste scoppiate a inizio marzo – durante le quali hanno perso la vita 13 detenuti su cui pochissime parole sono state spese –, in moltissime case circondariali sono state denunciate azioni vessatorie nei confronti di quelli che vengono definiti “i rivoltosi”. Innanzitutto, si sarebbero verificati numerosi trasferimenti a scopo punitivo e senza alcun preavviso alle famiglie. In molti sarebbero anche stati privati dei più elementari diritti: come segnalato all’Associazione Antigone, nel carcere di Opera (Milano) a un numero indefinibile di detenuti sarebbe stata negata la possibilità per oltre venti giorni di fare la spesa poiché, in base a quanto dichiarato dal direttore ad alcuni familiari, i loro conti sarebbero risultati bloccati a titolo di pignoramento per il risarcimento per i danni causati alla struttura durante le rivolte, ex art. 72 D.P.R. 230/00. Provvedimenti arbitrari di cui nessuno era informato. Solo dopo le denunce delle famiglie, i conti sarebbero stati sbloccati ma unicamente per l’acquisto di acqua, caffè e sigarette.
Inoltre, ai detenuti sarebbe stata sequestrata la televisione, negando persino l’ora d’aria e il vitto per vari giorni. Ma non è tutto: purtroppo, i fatti più gravi riguardano violenze i cui particolari, fino alla scorsa settimana, non erano ancora emersi. In base a quanto comunicato ad Antigone, all’associazione contro gli abusi in divisa e al Garante Nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, il 9 marzo – il giorno della rivolta di Opera – vi sarebbero stati due interventi delle forze dell’ordine, il primo per far rientrare i detenuti in rivolta, il secondo all’interno delle celle. Le testimonianze delle famiglie, coincidenti tra loro, parlano di manganellate in pieno viso, calci e pugni. Una madre racconta di aver parlato attraverso una finestra con il figlio detenuto: «Gli agenti sono entrati in dieci in cella e mi hanno colpito fortissimo in testa e nei testicoli». Al suo avvocato gli agenti avrebbero risposto che il ragazzo ha avuto qualche ceffone, ma sta bene.
I racconti continuano: i reclusi mettono in guardia le proprie mogli e ricordano loro che non si suiciderebbero mai né potrebbero morire per assunzione di stupefacenti o metadone, temono che le violenze e addirittura le morti vengano occultate. Le telefonate rimangono sospese per molti giorni e bruscamente interrotte quando si accenna a quanto avvenuto. Il 21 marzo arriva una nuova testimonianza, un detenuto ha il coraggio di denunciare quanto subito: «Mi sono avvicinato a chiedere dei miei diritti per fare la spesa settimanale, l’agente mi ha risposto in modo provocatorio e dopo un po’ è tornato accompagnato da altri 5 agenti, mi ha preso sotto braccio e mi ha portato in cella, dove mi hanno bloccato e mi hanno colpito con calci e pugni».
Se queste ricostruzioni fossero confermate, l’Associazione Antigone chiederà che tali atti siano qualificati come tortura commessa da pubblici ufficiali ai sensi dell’art. 613 bis del Codice Penale. Purtroppo tale esposto, presentato dall’organizzazione che da anni si occupa dei diritti dei detenuti, non è il solo poiché fatti analoghi sarebbero accaduti a Melfi – dove i reclusi sarebbero stati presi a sprangate – e più di recente a Santa Maria Capua Vetere. Nel carcere campano in provincia di Caserta, in cui si vive una condizione tragica di sovraffollamento e di mancanza di un allaccio alla rete idrica cittadina, si sarebbe verificata una vera e propria rappresaglia ai danni dei detenuti, colpevoli di non voler rientrare nelle proprie celle dopo aver ricevuto la notizia che un ospite della sezione alta sicurezza, in attesa di giudizio, era risultato positivo al coronavirus.
In una situazione di panico come quella attuale è molto facile cedere ad atti di insubordinazione, spinti dalla necessità di farsi ascoltare e di veder tutelato il proprio diritto alla salute. Tuttavia, in base alla ricostruzione fatta dalla magistratura di sorveglianza lunedì 6 aprile, il giorno successivo, non si sarebbe trattato di una rivolta, bensì di un’occupazione simbolica della sezione accompagnata da battitura, tra l’altro conclusasi la sera stessa. Ciò nonostante, si sarebbe verificata una vera e propria rappresaglia da parte della polizia penitenziaria dopo la visita dei giudici: quasi 100 poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa avrebbero riempito le sezioni iniziando i pestaggi nelle camere di pernottamento. E per umiliarli più di quanto quotidianamente la reclusione non faccia, avrebbero condotto i detenuti nei corridoi, obbligandoli a spogliarsi e a tagliarsi barba e capelli, tuttavia senza considerare la possibilità che alcuni di essi sarebbero tornati a casa, agli arresti domiciliari, avendo così la possibilità di mostrare le ferite sul proprio corpo e di farsi portavoce di chi è rimasto in carcere costretto al silenzio.
Gli atti di servizio di quel pomeriggio parlano di perquisizione straordinaria, finalizzata alla bonifica in seguito alle proteste: dunque gli agenti avrebbero dovuto perquisire le celle per rinvenire eventuali oggetti “irregolari” in seguito ai disordini delle ore precedenti. Eppure, si sarebbe verificato tutt’altro, mettendo in atto una vera e propria vendetta. Verrebbe da chiedersi per cosa. Probabilmente, uno Stato che ha necessità di reprimere e silenziare qualsiasi opposizione si sente offeso quando persone che per molti non avrebbero neppure diritto di vivere si permettono di alzare il capo e chiedere di essere tutelate, o che venga salvaguardato l’inviolabile diritto alla salute di cui sono portatrici come ogni cittadino.
Spesso, di fronte a questo genere di violenze si invoca l’art. 41 dell’ordinamento penitenziario che consente l’uso della forza se indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione e per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti. Tale disposizione, che di per sé crea qualche perplessità poiché suscettibile di rischiose applicazioni estensive, non sarebbe comunque applicabile al caso di specie poiché la protesta si era oramai conclusa da svariate ore. Tuttavia, quelle di Opera e Santa Maria Capua Vetere sono solo due delle innumerevoli e vergognose ripercussioni denunciate: anche nella casa circondariale di Poggioreale, a Napoli, si segnalano violenze nelle celle di giù, riportando a galla lo spettro della cella zero. E le stesse violenze fisiche e psicologiche sono state accertate nell’istituto di Pavia-Torre del Gallo.
Quanto avvenuto nelle ultime settimane è la dimostrazione dello Stato repressivo in cui ci troviamo, lo stesso Stato repressivo che di fronte a manifestazioni pacifiche e con il rispetto delle distanze di sicurezza al di fuori di Rebibbia ha caricato i familiari presenti e ha obbligato otto persone a salire su un solo blindato, trasgredendo proprio a quelle norme sul distanziamento sociale che afferma di difendere. Uno Stato violento, le cui barbarie sono segno di una civiltà al declino che, quindi, non può essere più definita tale Sintomo della disumanità che si annida e striscia negli istituti, lasciando morte e dolore alle proprie spalle.