Localizzata nell’aerea dei Campi Flegrei, Cuma è una piccola frazione del Comune di Bacoli, non lontano da Napoli. Tale territorio fu uno dei primi italiani a essere colonizzato dai Greci: su un promontorio ancora oggi esistente che dà sul mare, infatti, nel 730 a.C. gli Eubei di Calcide fondarono la città di Kýmē. Sin dalla sua istituzione, questa fu culla di cultura e ricchezze e nel corso dei secoli crebbe da un punto di vista sia economico sia militare. Ciononostante, la sua fama cessò nel 1207, quando, a seguito delle scorribande dei Saraceni, i suoi ultimi abitanti l’abbandonarono, lasciando il territorio deserto e dimenticato.
Trasformatasi in una palude, l’area fu riscoperta a partire dal 1606, quando si fece sede di alcuni scavi archeologici, che diventarono sistematici a partire dal 1852 riportando alla luce i fasti della vecchia colonia. L’acropoli e la città bassa della polis greca furono piano piano ripulite e sono oggi visitabili in quello che viene considerato come uno dei centri archeologici più antichi d’Italia. Quello di Cuma è un intrigante sito da perlustrare per chi ama la storia antica, ma anche per chi è affascinato dai miti greci e romani, quali i racconti di Ovidio e Virgilio, poiché è proprio qui che è possibile visitare l’Antro della Sibilla: una galleria tufacea rettilinea, casa della Sibilla Cumana, per l’appunto, la più celebre degli oracoli dell’antichità alla quale Enea fa visita in uno degli episodi narrati nell’Eneide.
Tra i luoghi esplorabili legati alla mitologia, però, non vi è solo il rifugio abitato dalla profetessa, ma anche il Tempio d’Apollo, un edificio greco-romano eretto in epoca greca tra il VI e il V secolo a.C. in onore di Era, che venne poi abbandonato in epoca sannita, ricostruito durante l’epoca augustea e infine convertito in basilica dai cristiani tra il VI e l’VIII secolo d.C. I resti di tale monumento vennero alla luce nel 1912, quando fu ritrovata un’epigrafe in legno che faceva riferimento all’Apollo Cumano, permettendo anche diidentificare il luogo di culto con quello che secondo Virgilio fu edificato da Dedalo in onore al dio del Sole.
Nel VI libro dell’Eneide, infatti, il poeta romano dedica alcuni versi alla storia di Dedalo, raccontando di come questo grande costruttore ateniese fosse fuggito da Minosse, re di Creta, grazie al suo ingegno, di come avesse raggiunto Cuma e del suo dolore per la perdita del figlioletto Icaro: Dedalo, come è noto, fuggendo dal regno Minoico, su penne veloci osò affidarsi al cielo, e per l’insolito cammino volò fino alle gelide Orse e leggero infine si fermò sulla rocca calcidica. E qui, appena toccata la terra, a te, o Febo, consacrò le ali ed eresse un tempio immane. Sulle porte era raffigurata la morte di Androgeo, quindi i Cecropidi obbligati – miserando tributo – a dare come pena ogni anno sette corpi di figli e sta raffigurata l’urna da cui si estraevano le sorti. Di contro compare la terra di Cnosso elevata sul mare: qui vi è il crudele amore del toro e Pasifae posta sotto al toro con un’astuzia e il Minotauro, razza mescolata e prole biforme, segno di un amore scellerato; qui la casa, opera famosa col suo inestricabile errare; ma in verità lo stesso Dedalo, preso da pietà per il grande amore della regina sciolse l’inganno dei giri e rigiri nel Labirinto guidando con un filo i ciechi passi. Tu pure, o Icaro, avresti una parte importante in questo grande lavoro, se lo permettesse il dolore. Due volte aveva tentato di raffigurare l’evento nell’oro, due volte caddero le paterne mani.
Del tempio mitico oggigiorno non si conserva granché: pochissimi elementi del più antico edificio greco, che si suppone avesse una pianta periptera con sei colonne sulla fronte minore, sono ancora visibili. Lo stesso vale per quelli che richiamano il periodo romano della costruzione, che si immagina recasse al centro della cella un’immensa statua che riproduceva le fattezze del dio Apollo. Nonostante ciò, quando si visita questo territorio un tempo venerato e la sua terrazza, che affaccia su una vista mozzafiato, non si può non immaginare Dedalo che consacra le sue ali a quello stesso dio che fu indirettamente responsabile per la morte del figlio e che colto dal dolore non riesce a trascrivere la storia dello spericolato Icaro.