Tra le tante cose che si fa finta di scoprire in questi mesi è che la cultura sia considerata – dalla politica quanto dall’opinione pubblica – un bene di secondo piano, e che l’arte e gli artisti possano essere sacrificati in nome di un disegno che predilige altre catene di produzione. La verità è che la subalternità del settore culturale rispetto a praticamente tutto il resto ha radici ben più profonde, non riconducibili esclusivamente ai tagli necessari per fronteggiare l’emergenza coronavirus, una parola dietro la quale sembra molto semplice nascondersi. Così come è facile giustificare ogni provvedimento rifacendosi alla pandemia sostenendo che il problema stia tutto lì, nel fatto che il distanziamento sociale e le annesse limitazioni abbiano come conseguenza naturale la sospensione di concerti, mostre e così via.
Sia chiaro, la colpa non è attribuibile esclusivamente a Conte o al Ministro Franceschini, né a questo o a quel decreto che, naturalmente, in questa chiusura semi-complessiva del Paese, finiscono per tenere fermo un po’ tutto. Le radici sono, appunto, più profonde e hanno a che fare con la concezione sociale che si ha della cultura in generale e di queste forme d’arte, quelle che non vengono percepite nemmeno come un impiego e rispetto alle quali il problema passa sempre in secondo piano.
Le iniziative messe in atto dagli addetti ai lavori, comunque, non sono mancate e sono tutte lodevoli: pensiamo a Scena Unita di Fedez, che ha raccolto 80 artisti, i quali hanno contribuito con 2 milioni di euro in cinque giorni da destinare a coloro che operano nel settore, o a Favino, Accorsi e altri che hanno scritto una lettera di protesta diventata virale. A perderci di più, però, sono gli artisti emergenti, i giovani talenti e le medio-piccole realtà: per questo abbiamo provato a raccogliere le loro voci, confrontandoci con le loro esperienze e sui modi alternativi di esprimersi. Ne abbiamo parlato con Manuel Apice, cantautore già vincitore del Premio De Andrè, con Jonathan Lazzini, allievo della scuola Piccolo Teatro di Milano, e con Giovanni Sparano, direttore del Barezzi Festival.