Cuba la ami o la odi, non ci sono posizioni intermedie. Potrai abbandonarti alla poetica malinconia che la pervade o potrai non apprezzarne l’arretratezza, ma sicuramente non ti sarà indifferente. L’isola è come una vecchia signora che attende sul ciglio della strada in una periferia degradata e mostra orgogliosamente tutte le sue rughe: ci ha messo una vita per avere quei solchi profondi sul viso, un’esistenza di poche vittorie e molte sconfitte, di tanti che hanno provato a contaminarla e che ancora tentano invano. Aspetta con un sorriso dolce e genuino, non tenta di apparire quello che non è. Non potrai mai capirla, non fino in fondo.
La prima volta che sono stata a L’Avana, un mese non è stato sufficiente per interpretare i suoi paradossi, la logica – spesso inesistente – che muove un popolo straordinario a cui la storia ha voltato le spalle. Non è difficile percepire nei discorsi dei cubani una velata amarezza per le proprie sorti, una malinconia che però non li ha incattiviti come spesso succede nelle grandi ingiustizie ma che, anzi, ha accentuato la loro meravigliosa propensione alla gentilezza, all’aiuto reciproco spontaneo. Basta un attimo per comprendere che l’interminabile volo non taglia solo l’Oceano Atlantico ma attraversa decenni di storia. Cuba è ferma agli anni Cinquanta ed è diversa da qualsiasi cosa si possa immaginare. Tutto è rimasto come un tempo.
Atterrare sull’isola significa tuffarsi nel passato, tra i miracoli ambulanti di macchine d’epoca riparate decine di volte, cabine telefoniche ormai datate, coloratissimi camion degli anni Quaranta e Sessanta e un’infinità di biciclette pedalate da immancabili calzini bianchi e scarpe aperte. Tuttora, moltissima gente a Santiago de Cuba porta i fiori a Fidel Castro, sperando ancora nel sogno di un laboratorio socialista e in una ribellione che rivendichi la dignità e l’indipendenza di un intero popolo. Cuba muore nelle sue disillusioni e rinasce nelle sue illusioni; è sospesa nel tempo, spesso incapace di analizzare razionalmente i dati storici e di comprendere non solo le luci ma anche le ombre della rivoluzione.
Se si pensa a Cuba solo per il mare cristallino, si incorre in un grave errore. È, più di tutto, il simbolo di una filosofia di vita perduta nella frenesia della logica a cui siamo abituati, tanto da non riuscire neppure a concepire la possibilità di un ritmo diverso. L’isola è un mondo pre-industriale fatto di povertà e diseguaglianza, una ferita ben visibile già dalle profonde contraddizioni architettoniche della capitale che non ha forza né mezzi per potersi ricostruire. La politica del governo rivoluzionario tentò infatti di migliorare le condizioni della popolazione rurale, poco interessandosi allo sviluppo urbanistico su cui rifletté solo dal 1990 in poi, provando a risistemare – con poco successo – L’Avana Vieja.
La capitale caraibica, la cui bellezza è da trovare nelle sfumature del suo paradosso, è insieme alla città di Trinidad il luogo meglio conservato dopo il periodo coloniale ed elogia l’arte di saper aspettare e di vivere senza l’ossessione di un tempo che necessariamente deve scorrere. La lentezza è il tratto peculiare dell’intera isola, una lentezza che, volenti o nolenti, l’Occidente non ha più nel proprio patrimonio genetico. I ritmi di Cuba sono di una calma disarmante, tra gli autobus sempre rotti su cui si riversa un’orda di bambini che non hanno nulla e i pochissimi treni che non passano mai, ma che tutti aspettano. La lentezza che abbiamo perso si può trovare sotto le pensiline fatiscenti della capitale: anziani che sanno aspettare senza orari, che non concepiscono l’utilità di un orologio e che si intrattengono a giocare a scacchi tra le strade in attesa di un trasporto che forse non arriverà. Per un occidentale medio, tutto questo risulterebbe esasperante se la vacanza si prolungasse troppo: non può che generare frustrazione e insoddisfazione in chi è abituato a una scansione inarrestabile. Negli isolani, invece, suscita un sospiro rassegnato e un sorriso sincero.
Abbiamo perso qualcosa di profondamente importante e Cuba è il luogo giusto per assaporare una vita che la logica del nostro mondo non ci consente. Andare più veloci non significa conoscere meglio, sapere di più, vivere con più pienezza e consapevolezza la vita. Un qualsiasi bambino per le vie de L’Avana Vieja può insegnarti che ti sfugge, della vita, una grande verità: fare a meno è un verbo che puoi coniugare con entusiasmo. I cubani sanno semplificare e sono stati costretti a farlo nel corso della storia: per l’intero Occidente industrializzato la perdita è vissuta come una sconfitta, un trauma da superare attraverso una nuova acquisizione. Perdere invece, per i fieri isolani, è forse il miglior modo per trovare.
Fare un viaggio a Cuba significa godere di paesaggi straordinari e impensabili in Europa, affacciarsi a una bellezza immediata che non si può non apprezzare: la Playa de l’Este, Playa Maguana a Baracoa, Playa Azul a Varadero, el Malecón, il lungomare di fama mondiale della capitale, Pinar del Rio, tra le verdissime piantagioni di tabacco, e Cayo Largo, forse l’isola più bella e selvaggia in un arcipelago a circa 200 km da L’Avana. Ma un viaggio simile è lo spreco di un’enorme opportunità di vita. La vera bellezza di Cuba, infatti, non è un aspetto subito percepibile nel paesaggio e va ben al di là dell’incontaminazione dei panorami naturali: per comprenderla è necessario essere disposti a perdere, a non deridere l’arte del meno e a rinunciare – anche se per breve tempo – a ciò che si pensava irrinunciabile. La vera bellezza dell’isola è da ricercare nel peso minimo e perfetto di cui si caricano i suoi abitanti, nel superfluo di cui sono liberi e senza il quale riescono ugualmente a sprigionare quell’allegria che conquista ogni viaggiatore.
L’Avana è una capitale mutevole in ogni suo quartiere, alterna opulenza estrema a totale povertà. Era, negli anni Venti e Trenta, una meta internazionale per il gioco d’azzardo e per il sesso e rievoca quel suo fascino in molti edifici ormai abbandonati. L’intera città è avvolta da un’atmosfera decadente e paradossalmente fu proprio l’embargo americano a costituirne il successo turistico. Ancora adesso, però, resta una città incontaminata in cui ormai gran parte dei visitatori opta per le case particular piuttosto che per gli hotel, case locali in cui sono ospitati da abitanti del luogo e che consentono un approccio diretto al popolo cubano e al suo stile di vita. La capitale possiede un notevole patrimonio architettonico tra stile liberty, decò, rococò e neoclassico uno accanto all’altro, in una mescolanza priva di qualsiasi coerenza. Chi visita Cuba deve essere disposto ad arrendersi ai suoi meccanismi senza la presunzione di poterli interpretare, perché molto spesso non sono dettati da una logica ma solo dalla vita che scorre, lenta e inarrestabile.
L’Avana è dominata dalla triste allegria di quel Corazon Espinado di una Cuba che perde e che accetta la perdita, riuscendo a rinascere da essa. È una natura umana varia ed esuberante, tra i cornicioni ciondolanti delle piccole vie coloniali e le grandi caserme pseudo-comuniste disseminate nella città, tra quell’atmosfera romantica dei palazzi abbandonati color pastello e l’odore di sigaro e rum. Dalla città bisogna lasciarsi trasportare, trovare riposo come solo lì si può fare. A sostenerlo era Ernest Hemingway la cui vita fu segnata da una lunga e contrastata storia d’amore con l’isola. Lo scrittore visse a L’Avana dal 1932 alla morte nel 1960, celebrandone l’innocenza e la semplicità. Ogni volta che voleva staccare dal ritmo frenetico inglese e americano, si rifugiava nella capitale tra la pesca – che ispirò Il Vecchio e il Mare – e i suoi immancabili mojitos e daiquiri, passeggiando tra le facciate scrostate dal vento e dalla salsedine.
L’energia di Cuba seduce con la nostalgia di un’innocenza ormai persa, con l’euforia inspiegabile per le condizioni in cui versa la gente e con un ritmo famoso in tutto il mondo. C’è sull’isola una brillantezza di colori non offuscati dallo smog, la totale mancanza di inquinamento, la vita semplice di chi non ha nulla se non un sorriso da offrire. Non esistono spot pubblicitari, la televisione ha solo cinque canali tutti di dominio statale e la connessione internet è riservata a pochi: a Cuba qualsiasi persona – viaggiatore o abitante – può connettersi solo con una scheda Etecsa al costo di 1 euro per un’ora sul web. La connessione è quasi assente, sostituita invece da un’empatia subito percepibile tra le strade in cui perdersi, tra le interminabili code di persone senza lamentele e senza fretta, tra i santeros e i numerosi ballerini.
Vivere a contatto col popolo cubano consente di stilare un piccolo manuale di resistenza, la genetica di un tipo umano più leggero, che meglio sa apprezzare e valorizzare la vita, che consuma il necessario e sa perdersi senza perdere davvero. La seduzione di Cuba è nella gentilezza di chi la abita e nella vibrazione potente di una grande terra, con una grande anima. È difficile, per chi ha perso molte cose col progresso, riuscire a concepire e accettare, a comprendere l’entusiasmo di una gente che non avrebbe motivi per sorridere. Cuba, però, ti insegna la leggerezza, la vita lontana dallo stress, il ritmo quasi rassegnato di quel che sarà. È impossibile comprenderla a fondo ma, per provare quantomeno a descriverla, Cuba bisogna un po’ compatirla, un po’ viverla.
Meraviglioso articolo
La ringrazio molto!