Prima che l’emergenza coronavirus scoppiasse anche in Italia, la più confortante rassicurazione a cui ci piaceva prestare attenzione era la presunta mortalità alta solo nelle persone anziane, immunodepresse o con patologie pregresse. Una magra consolazione – per altro rivelatasi incorretta – che identificava le categorie a rischio con persone di serie B, della cui morte ci importava ben poco. Alla spaventosa consapevolezza di fronte a un rischio molto più diffuso del previsto, invece, si è aggiunta la preoccupazione di una popolazione che in effetti è tendenzialmente vecchia (circa il 23% degli italiani ha più di 65 anni), dunque più difficilmente in grado di proteggersi dagli effetti che il COVID-19 ha sull’organismo, e il timore per un sistema sanitario incapace di accogliere tutte le emergenze del territorio.
Non è raro, allora, imbattersi nelle notizie che dipingono le scene catastrofiche all’interno delle case di riposo, le cui condizioni favoriscono fin troppo la diffusione dell’epidemia e in cui i supporti sanitari sono pressoché insufficienti per la tutela degli anziani e del personale che se ne prende cura. È recentissima, ma non una novità, la vicenda della struttura di Napoli nella quale, a catena, sempre più ospiti si sono rivelati positivi al COVID-19 e i cui operatori sanitari si sono trovati in grave difficoltà. Chiusi nella casa di cura con 48 anziani febbricitanti, gli OSS della Casa di Mela, che fossero sintomatici o meno, avrebbero dovuto essere messi immediatamente in quarantena, ma non hanno potuto seguire tali disposizioni perché il cambio turno previsto e alcuni di quelli successivi non sono mai arrivati. I giornali riportano che solo dopo 24 ore di reclusione i pazienti sono stati trasferiti negli ospedali e il personale liberato alla fine di un turno che, invece delle consuete 8 ore, è durato molto di più. Oltre agli ospiti, anziani e malati, nemmeno agli operatori sanitari, sfiniti e probabilmente infetti, è stata fornita la giusta assistenza, sebbene in questo caso corrispondesse alla semplice possibilità di tornare a casa per mettersi in quarantena.
La vicenda partenopea, che fa tanto rabbrividire, è solo un esempio – non diversa da storie simili nel resto d’Italia – tristemente rappresentativa non solo delle gravi difficoltà del sistema, ma anche della condizione media in cui il personale sanitario è costretto a lavorare in questo periodo di grande tensione. Frequentemente paragonati a eroi nei momenti bui che stiamo vivendo, si possono tollerare il sacrificio del riposo – anche se non è accettabile in turni di 48 ore e oltre – o la rinuncia – pur di salvaguardarli – ai legami familiari fino alla fine dell’emergenza, ma se in cambio dell’appellativo ci si gioca la vita, sarebbe più giusto definirli i martiri di questa emergenza. Gli infermieri, i medici e tutto il personale addetto alla cura dei malati è inevitabilmente parte della fascia più esposta al rischio di contagio, così come il loro nobile lavoro prescrive. Ma tale consapevolezza non giustifica i livelli di inadeguatezza delle misure di sicurezza in cui gli operatori sono costretti a lavorare.
D’altronde, sono oltre 10mila i sanitari contagiati, gran parte dei quali è costituita dai medici di famiglia. Sì, quelli che non stanno in trincea, sì, quelli che non fanno le notti e i doppi turni in reparto, ma quelli che stanno facendo da filtro agli ospedali perché non collassino e che lo stanno facendo senza protezioni. Nelle ex zone rosse, ai medici di base sono state fornite poche mascherine per troppi giorni – una mascherina con il filtro assicura protezione per 8-12 ore, non per una settimana – e un unico camice monouso. Fuori dalle zone più drammatiche, invece, le uniche dotazioni sono quelle che gli stessi medici hanno potuto procurarsi da soli. Neanche una mascherina, neanche un paio d’occhiali protettivi, prodotti che, pur volendo reperirli da sé, sono ormai esauriti.
Dimentichi del fatto che una pandemia è una sfida emotiva senza eguali, non si può chiedere a chi la affronta quotidianamente di farlo senza le adeguate misure di sicurezza. D’altronde, durante le epidemie degli ultimi decenni, decisamente meno diffuse di questa, sono stati condotti degli studi sugli effetti a lungo termine della quarantena prolungata e sulle conseguenze che periodi del genere hanno su medici e infermieri. Fondamentali soprattutto le ricerche condotte alcuni anni dopo l’epidemia di SARS, prima tra tutte quella risalente al 2008, Understanding, compliance and psychological impact of the SARS quarantine experience. Epidemiol Infect di Reynolds DL, Garay JR, Deamond SL, Moran MK, Gold W, Styra R. Ricerche di questo tipo mostrano dati che, seppur non empiricamente inequivocabili, combaciano con decine di altri studi psicologici.
Rabbia, paura, frustrazione, senso di colpa, isolamento, depressione, insonnia, difficoltà ad avvicinarsi ai pazienti, addirittura disturbo post traumatico da stress: queste le conseguenze registrate sugli operatori sanitari. Vittime ed eroi dell’impatto psicologico della pandemia, sembrano tornati dalla guerra, questi health care workers, sebbene non siano soldati e non abbiano scelto di mettere in pericolo la loro vita. Non recita questo il loro giuramento, perché se curarci è il loro dovere, il nostro è quello di garantire le giuste condizioni perché possano prendersi cura degli altri garantendo la propria incolumità. Senza contare che un medico può aiutare tante persone, ma un medico ammalato ne può contagiare cinque volte di più di una qualunque altro paziente positivo. Gli effetti di questa negligenza diffusa si riverseranno sull’epidemia, ne impediranno il superamento clinico e anche quello psicologico. E per essere un Paese che si prepara alla conseguenze economiche e sociali che questa crisi sanitaria comporta, non stiamo affatto facendo un buon lavoro.