Cosa si fa, in Italia, per le vittime di violenza domestica? Cosa si fa per proteggerle da un’ulteriore aggressione, dalla possibilità, mai troppo remota, di subire un continuo incremento della violenza che giunge fino a gesti atroci e irrimediabili? Cosa si fa per evitare che le minacce diventino azioni concrete? La risposta è poco, molto poco, talvolta addirittura nulla, e a dirlo è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Quello portato all’attenzione di Strasburgo è, in realtà, un tema largamente discusso negli ultimi anni, relativo all’incapacità delle autorità di proteggere le vittime di violenza domestica e di genere. L’incolumità delle vittime spesso si scontra con le difficoltà tecniche nel tenere lontano un uomo violento dalla famiglia, e in alcuni casi – come quello riconosciuto dalla Corte – anche nella passività delle autorità nei confronti delle denunce e delle richieste d’aiuto delle vittime.
La condanna dalla CEDU è relativa a un terribile caso di violenza domestica che, dopo anni di denunce, è sfociato nell’omicidio di uno dei figli della coppia. Annalisa Landi aveva denunciato le violenze del suo ex compagno ripetutamente per oltre due anni. Percosse, abusi, stalking e minacce di morte erano stati portati all’attenzione dei carabinieri, alcuni addirittura avvenuti in caserma in presenza di alcuni esponenti dell’arma, eppure la procura non aveva preso nessuna precauzione in seguito alle ripetute denunce. Finché, nel 2018, Niccolò Patriarchi non ha tentato di assassinare la compagna e la figlia maggiore, e pugnalato a morte il figlio di un anno. Un epilogo così prevedibile, così evidente dalle parole e dai gesti dell’uomo, dalle minacce di morte alla donna e ai bambini, che pare assurdo sia successo davvero, che nessuno abbia fatto nulla per impedirlo.
Non si tratta solo di un caso ovviamente sconvolgente, di un’ingiustizia inaccettabile, ma anche di un esempio estremo ma rappresentativo della problematicità relativa alla protezione delle vittime di violenza domestica. Perché pone l’attenzione su cosa fa davvero l’Italia in questi casi. La CEDU ha stabilito che lo Stato ha sottovalutato la gravità della situazione, delle minacce e delle violenze, che non ha saputo difendere una vittima che aveva ripetutamente invocato l’aiuto delle autorità per una minaccia alla sua vita e a quella dei suoi figli che sembrava concreta già molto prima che lo diventasse. L’Italia non ha saputo proteggere dei minori dagli abusi di un genitore violento e ha violato l’articolo 2 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, il diritto alla vita. Eppure, il caso posto all’attenzione della Corte non è che una goccia, una fetta piccolissima della violenza di genere che ogni giorno, nel nostro Paese, miete vittime e per le quali non si fa abbastanza.
La violenza domestica ha tante sfaccettature. Può essere fatta di schiaffi e botte, può essere fatta di ricatti economici; può essere fatta di stalking, di abusi psicologici, di comportamenti controllanti, di violenza su minori e di leciti stupri coniugali. Quelle vessazioni di cui tanto sentiamo parlare in tv, ma di cui difficilmente comprendiamo l’angoscia, sono talmente diffuse che un’indagine del 2008 ha constatato che il 14.3% delle donne ha subito una qualche forma di violenza dal partner o da un ex partner nel corso della propria vita. Quasi tre milioni di vittime fin troppo spesso invisibili agli occhi di chi dovrebbe proteggerle.
Non si parla tanto dell’impunità degli aggressori, quanto invece della sicurezza delle vittime. In seguito a una denuncia di violenza, scattano le disposizioni di allontanamento dalla casa familiare o i divieti di avvicinamento dell’abusante alle abusate. Eppure c’è da chiedersi che potere abbia un’ordinanza quando la furia omicida di un uomo violento non si ferma neanche davanti alla legge. E quando si portano queste problematiche ai tavoli della politica, la risposta si traduce sempre in un inasprimento delle pene, sebbene ci sia da chiedersi quale deterrente possa rappresentare di fronte all’efferatezza di delitti evidentemente inarrestabili. A queste falle della giustizia si è tentato di rispondere con il braccialetto elettronico, soluzione già imperfetta in partenza, poi rivelatasi anche incapace di garantire quella protezione che prometteva. Era stato pensato per monitorare gli spostamenti degli uomini violenti e per assicurarsi di tenerli lontani dalle loro vittime, ma il suo raggio d’azione circoscritto alle zone abitualmente frequentate ha dimostrato le falle del sistema e non ridotto drasticamente gli abusi come paventato.
Quando si parla di questo tipo di violenza, tutti i provvedimenti pensati e messi in pratica non bastano. Non bastano perché un uomo che vuole punire una donna che considera di sua proprietà per il solo fatto di voler essere libera, che sceglie di assassinare i propri figli per provocarle sofferenza, non agisce per irrazionalità, per follia – come fin troppo spesso si ripete, quasi a giustificarne i gesti – o per piacere, ma agisce per il potere. Per un’affermazione di virilità evidentemente nociva, per un’espressione di quel possesso che la società in cui ha vissuto gli ha fatto credere di poter reclamare, e che per sradicare non si fa granché, che porta addirittura a ignorare le denunce di una donna che in quelle minacce ha intravisto una concretezza inascoltata finché non si è espressa nella più terribile delle violenze.
È forse qui l’insegnamento che andrebbe tratto da questa terribile storia. Non tanto la rivelazione dell’incapacità di riconoscere il problema, di cui eravamo già vagamente consapevoli, quanto la correlazione tra tale cecità e la sua persistenza. Se l’Italia è incapace di proteggere le vittime di violenza domestica, è forse perché è incapace di riconoscerle, o forse perché non è in grado di riconoscere il problema a monte, quello che fa sì che diventino vittime. Non annovera le minacce di morte a un’ex compagna come una forma di problematica violenza di genere, non inserisce la possessività dell’uomo aggressivo nella lista di comportamenti inaccettabili, checché ne dica la legge. E vede in questi inaccettabili delitti l’azione unica e irripetibile di un folle, e non una sistematicità malata che affligge l’intera società.