«Non c’è nessun muro al mondo che permetterà ai siriani di non scappare dalla guerra», mi dice Said offrendomi un caffè che accetto di buon grado, mentre intorno la città turca di Gaziantep è cullata dal canto del muezzin nel torpore delle prime luci del mattino.
Siamo nell’Anatolia sud-orientale, a un passo dal confine turco-siriano e a meno di 60 chilometri da un disastro umanitario che si consuma sotto la stessa alba di un Occidente che non ha fretta di svegliarsi. Gaziantep è una provincia da evitare per la Farnesina, una zona a rischio come Kilis, Sanliurfa, Sirnak, Hakkari e Mardin, ma Said non la pensa così: «È una città buona, anche se molto costosa», mi confessa con l’inglese un po’ traballante di un siriano che ha dovuto iniziare una vita da zero. Appare molto stanco – a tratti si immobilizza come assorto in preghiera – mentre rievoca l’attraversamento del confine nei pressi di Kilis per rifugiarsi in Turchia, poco più di un anno fa. Chiude gli occhi e racconta.
L’unico modo di attraversare il confine – mi spiega – è attraverso i trafficanti di uomini. Così ha fatto lui. Ogni trafficante riesce a far passare non più di dieci uomini al giorno tra le due e le quattro del mattino. Se è fortunato. Altrimenti, un paio o poco più. Molto spesso nessuno. Funziona così: il trafficante cerca il fossato meno profondo scavato dai soldati turchi come deterrente per la fuga, la profondità varia da uno a sei metri. Individuato il fossato ideale, inizia a riempirlo per colmare il dislivello e permetterne lo scavalcamento. Recide – rigorosamente di notte – il filo spinato del muro di Erdogan, ultimato nel giugno 2018. Blocchi di cemento di tre metri, pattugliamenti costanti, videosorveglianza, sensori e rilevatori laser. Il muro, tenuto il più possibile lontano dalla cronaca, sigilla 764 chilometri del confine turco-siriano con lo scopo di allontanare immigrati clandestini e isolare il tratto più caldo del confine, tra Kilis e Jarablos. Mira a proteggere la Turchia da chiunque sia collegato al PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato da Erdogan terrorista. Ma c’è un’incongruenza nelle motivazioni di Erdogan, dice Said: più di 70mila foreign fighters pronti ad arruolarsi nell’ISIS e nei gruppi armati siriani provenivano direttamente dalla Turchia, passando dall’autrostrada dell’ISIS, il triangolo Jarablus-Suruç-Tell Abiad, in un senso migratorio opposto (dalla Turchia alla Siria) rispetto a quello che Erdogan afferma di voler scoraggiare (dalla Siria alla Turchia). Il progetto turco venne elaborato dal Ministero della Finanza e della Difesa per poi essere annunciato anonimamente alla rivista Anadolu, prevedendo inizialmente una barriera di 826 chilometri su un confine di 911 chilometri, il più lungo della Turchia. Il muro sul confine turco-siriano si colloca in un progetto più ampio del Presidente, vale a dire costruire i tre muri, uno con l’Iran nei tratti più caldi per 550 chilometri, e un terzo di 350 chilometri con l’Iraq.
Il prezzo per l’attraversamento è di circa 50 euro. I 50 euro della salvezza, senza garanzia di successo: «Ma un siriano pagherebbe molto di più per andare via. Darebbe tutto quel poco che ha. E io quasi niente avevo ormai. Neppure una famiglia viva». Non è un’intervista e allora non faccio domande, un po’ per umanità, un po’ perché il silenzio straziante e gli occhi di Said parlano più di qualsiasi parola. Cerco di orientarmi tra le rughe del suo volto e nella sua espressione riconosco il ritratto più veritiero di un Paese sfortunato e di un popolo massacrato con assurda violenza.
Innescata nel 2011 come rivolta contro il regime di Bashar Al Assad, la guerra civile tuttora in corso conta tra i 350 e i 500 milioni di morti, 2 milioni e mezzo di feriti e 5.4 milioni di siriani rifugiati principalmente nei Paesi limitrofi. Il 66% dei bambini ha perso un familiare, la casa o è stato ferito. Una tragedia umana colossale, come dichiarato dall’Alto Commissario per le Nazioni Unite dei Rifugiati (UNHCR) Filippo Grandi. Il clima semi-arido del sud-est turco contrasta l’atmosfera gelida del suo racconto, che quasi fatica a portare a termine. Said mi svela un’antichissima verità: la saggezza potente che solo il dolore sa dare. Ma Gaziantep è per lui finalmente un’oasi di pace.
Decidiamo di passeggiare verso Gaziantep Kalesi e Said mi appare un uomo tanto risoluto quanto solo. Nella Mesopotamia turca, tra le rovine dei primi insediamenti della storia dell’uomo, la città di Gaziantep è un melting pot di religioni, architetture, tradizioni e storie. Said mi indica le targhe delle auto: almeno una su quattro – mi dice – è una targa siriana. L’intera Turchia ospita 3 milioni e 500mila rifugiati siriani: più della metà si trova nelle cinque provincie lungo il confine e solo Gaziantep ne ospita circa 500mila. Di questi, circa 300mila vivono in città e in stabili non a norma di legge per l’elevatissimo costo degli affitti – tra cui Said, fino a qualche mese fa ospitato all’interno di una moschea. 50mila rifugiati vivono in campi profughi, i restanti sfuggono dalle registrazioni ufficiali (dati AFAD, Gestione delle Migrazioni). Qui vicino, nella periferia di Gaziantep, c’è Islahiye, uno dei campi profughi più tristemente noti nell’immaginario comune. È una città nella città, sorvegliata h24 da soldati turchi e con una piccola moschea al suo interno. Islahiye gode del supporto e degli aiuti umanitari di UHCR, ma Said non nasconde le condizioni sgradevoli del campo, sovraffollato, informale e poco organizzato. Vivono con piccoli mobili, un materasso e nel caso più fortunato un piccolo fornello. I volontari controllano il campo quotidianamente, registrano i siriani, li vaccinano e gli forniscono una carta d’identità. Dopo l’attraversamento del confine, Said mi dice di non aver riscontrato eccessive difficoltà e si reputa più fortunato del destino di molti altri: «Tutto è meglio dello svegliarsi con una paura costante della guerra».
Integrarsi è difficile, ma è un prezzo che ogni siriano è disposto a pagare. Ha subito iniziato a studiare il turco e l’inglese, mi complimento per i risultati ottenuti e sorride con l’orgoglio di chi di ferite ne ha viste per tutta la vita, ma ha deciso di scommettere sulla rinascita. Inizialmente venditore di spezie al mercato vecchio, lavora ora in un’industria tessile, il settore maggiormente in espansione della città. La vita a Gaziantep procede con i ritmi di una metropoli di quasi 2 milioni di abitanti, scandita dai cinque richiami giornalieri alla preghiera, pronunciati dall’alto dei minareti. All’orizzonte Aleppo, geograficamente e storicamente la città-sorella di Gaziantep a solo 92 chilometri di distanza. Said guarda in direzione della sua città e inizia a raccontarmi una storia nella storia, mentre cerchiamo con cautela di avvicinarci a Kilis.
«Ad Aleppo la guerra ce l’hai nelle ossa, nella casa»: sono 14 le confessioni religiose che considerano santo il suolo siriano, ora ormai soltanto simbolo di totale desolazione. Said mi parla di Padre Ibrahim, dal 2014 parroco di Aleppo: «Ha studiato a Roma, come te!», mi dice e sorride, sento che siamo davvero tutti uguali. Padre Ibrahim è un francescano degli ordini dei frati minori e Said, musulmano da generazioni, prova una forte stima per l’aiuto umanitario e i processi di ricostruzione e istruzione portati avanti dalla sua comunità. La parrocchia, una delle poche sopravvissute in una Aleppo rasa al suolo, si è dimostrata sempre aperta al dialogo coi fratelli musulmani, la cui stessa esperienza del dolore ha portato a una condivisione sincera e onesta.
A esprimere l’apprezzamento per l’esempio di laicità e apertura religiosa della Siria è stato anche Giorgio Napolitano, che ha ringraziato per la fratellanza creata tra le diverse comunità e per la tutela della libertà delle antiche congregazioni cristiane. Padre Ibrahim non è solo la voce della comunità cristiana straziata in Siria – passata dal 10% al 4% della popolazione – ma è voce dell’intero popolo, indistintamente dalla religione d’appartenenza: ha raccontato le cronache della città di Aleppo durante la guerra civile pubblicando Un istante prima dell’alba e Viene il mattino, nel marzo 2018. «Ci sentiamo sospesi tra cielo e terra. Ci alziamo come un pallone tra i tanti piedi di giocatori internazionali», ha dichiarato in un’intervista. Said dice che purtroppo non c’è molto da aggiungere.
Una pattuglia ci ferma: in questa zona non sono possibili foto o riprese. È necessario un permesso speciale e ci fanno cancellare qualsiasi tipo di materiale controllando minuziosamente. Visibilissimo il muro in lontananza, forse meno di 30 km, un blocco di cemento circondato da alberi e soldati. Devi vederlo per toccare con mano la gravità dello sconfinamento della guerra siriana in Turchia. Said mi consiglia di ritornare a Gaziantep ed è troppo incosciente non assecondarlo.
Nel viaggio di ritorno ci accorgiamo di una lunghissima colonna di camion che si dirigono verso il muro. Trasportano equipaggiamenti e armi per la creazione di uno Stato cuscinetto, approvato il 7 agosto 2019. La NATO aveva già proposto la messa in sicurezza dopo l’abbattimento da parte di soldati turchi, nel 2015, di un jet russo che sorvolava il confine. La proposta viene adesso da un centro operativo degli Stati Uniti per evitare incursioni turche contro i curdi della Siria del Nord, come già accaduto nel 2016 e nel 2018. Per la Turchia la priorità è la messa in sicurezza del confine meridionale e l’allontanamento da una zona militarmente curda, dove da anni combattono forze turche e curde. «Stabilire un’area di sicurezza è una buona cosa. È necessario che il processo si attui velocemente», ha dichiarato Erdogan nel 2019, in seguito ai negoziati tra Washington e Ankara.
Le SDF, forze democratiche di difesa, hanno annunciato il ritiro delle postazioni immediatamente prossime al confine turco-siriano, così come le truppe dell’YPG, unità di protezione popolare, con un’azione di ritiro di 5 chilometri. Ankara assicura anche lo spostamento di torri di vedetta limitandosi a pattugliamenti quotidiani e rapidi. «L’escalation di attacchi da parte della Turchia nella Siria nord-orientale è stata temporaneamente fermata», afferma Amjed Osman, leader delle SDF. Ankara tenta di allontanarsi e proteggersi. Proprio al dicembre 2018 risale la particolare richiesta a Google del Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Cahit Turan: cancellare dal My Maps turco il territorio del Kurdistan. Google ha risposto dichiarando la violazione di servizio delle proprie politiche, rifiutando così la proposta.
Rientriamo a Gaziantep. A qualche ora di distanza la città si è svegliata del tutto, pattuglie sempre vigili negli angoli di una città velatamente triste rimasta impressa in chiunque sia passato da qui.
«Said, ma tu sei felice?»
Mi sorride e risponde: «Va bene così. Sono vivo e lavoro.»
Ci salutiamo con la promessa di incontrarci di nuovo.
Gaziantep, agosto 2019
Fotografie di Evelyn De Luca©