Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia […]. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. Ma l’ombra della Donna Selvaggia ancora si appiatta dietro di noi, nei nostri giorni, nelle nostre notti.
Incomincia così un testo di riferimento per la psicoanalisi del femminile, un testo che percorre i territori della psicologia analitica junghiana e archetipa, insieme all’etnologia. Clarissa Pinkola Estés, prima di essere forse la più completa studiosa di quella forza istintuale che dota tutte le donne, è anche una poeta e per questo impreziosisce, come ornamenti propri di una festa spirituale, il suo prezioso volume intitolato Donne che corrono coi lupi con perle di saggezza e di poesia disposte lungo lo stesso filo del linguaggio e avvolte intorno al collo fine di colei che è qui perché avverte un’intenzione profonda: la lettrice.
Ma la Estés è ancora prima una cantadora, custode quindi delle storie antiche e discendente da una lunga stirpe di narratrici ungheresi, le mesemondók, vecchie che raccontano sedute su una sedia di legno, e anche dalle cuentistas, vecchie di origine latinoamericana con seni generosi e fianchi larghi, che invece restano in piedi quando narrano le loro fiabe.
Un’immagine poetica che rende in modo chiaro e suggestivo la discendenza e la responsabilità verso l’arte dell’antica narrazione è quella che all’autrice è derivata da un sogno, nel quale c’era lei che declamava storie ma qualcuno le toccava il piede affettuosamente. Soltanto abbassando lo sguardo, la professionista si accorse di trovarsi sulle spalle di una vecchia che, sorridendole, le teneva salde le caviglie. Così deve essere, rispose l’anziana quando Clarissa Pinkola Estés nel suo sogno le propose di invertire i ruoli, che l’avrebbe sollevata lei sulle spalle essendo la più giovane. No, insistette, e l’altra si accorse che sotto di lei c’era un’altra vecchia che era sulle spalle di una donna ancora più anziana e così via.
Da questa lunga catena umana dunque, da questa colonna di umanità unita attraverso il tempo e lo spazio, si origina il numen, una forza creatrice che è il nucleo bruciante di tutte le storie. La narratrice ammette fin da subito di non sapere che strada prenderà la sua di storia, perché essa è libera da ogni vincolo, così come lo è lo spirito della Donna Selvaggia, e perché tutto dell’interlocutrice (affiliazioni etniche, religione, valori, esperienze) va a confluire nel suo specifico senso dell’anima. Perciò, su consiglio di sua nonna Katerin, secondo la quale chi costituisce maggior pericolo per gli altri è quella persona che sa di non sapere e non se ne dà affatto pensiero, la narratrice lascia parlare la voce più antica delle pietre e richiama El Duende, un vento che soffia sul viso della persona che ascolta, invadendo quel posto della psiche nel quale confluiscono storie, poesia e sogni, ovvero la dimora della Donna Selvaggia.
Ma cos’è questo archetipo che ricorre come un mantra e che a tutto fa pensare tranne che a centrini ricamati e a biancheria ordinata su comò rispolverati? Chi è davvero questa Amica? La Donna Selvaggia, ovvero la natura istintiva della donna, al pari della fauna selvaggia, è stata a lungo devastata, perseguitata e relegata in un territorio psichico fino a che avesse difficoltà a fluire spontaneamente, fino a che fosse costretta in cicli non più naturali dalla pressione della cultura corrente. Proprio come i lupi, le donne naturali sono considerate rapaci e prive di grazia e gentilezza, ma non c’è nulla di più falso.
I lupi sani e le donne sane hanno in comune talune caratteristiche psichiche: sensibilità acuta, spirito giocoso e grande devozione. Lupi e donne sono affini per natura, sono curiosi di sapere e possiedono grande forza e resistenza. Sono profondamente intuitivi e si occupano intensamente dei loro piccoli, del compagno, del gruppo. Sono esperti nell’arte di adattarsi a circostanze sempre mutevoli; sono fieramente gagliardi e molto coraggiosi.
È nel sotterraneo femminile della coscienza naturale e istintiva che ha la sua casa la Donna Selvaggia, in tutte le personificazioni dell’archetipo. Quella donna che sente di dover recuperare l’antica sapienza, il suo femminino più profondo, la stessa che oggi è costretta a essere tutto per tutti – più che leggere – ascolta allora, servendosi di questo testo di psicologia narrativa, le storie che le sono destinate, per arrivare ad abbeverarsi alla stessa fonte dei lupi senza paura.
“Brava” è se tiene il bavaglio alla bocca e il corpetto che fascia il busto e lo tiene eretto, se tiene gli angoli della bocca all’insù in un sorriso innocente; “cattiva” è se si lascia spuntare sotto l’orlo del vestito buono la sua favolosa coda. Sono queste leggende che vengono da lontano a rimettere in moto, secondo l’analista junghiana, la vita interiore delle donne al guinzaglio; è lo scontro, più che la conoscenza, con la propria natura selvaggia a liberare i corpi delle donne che disegnano ora movimenti slegati da ogni musica già appresa e approvata, a liberare i loro occhi dalle bellezze già contemplate e le loro voci dalle conversazioni unicamente umane. Sono storie che offrono segnali e medicamento, nel lento, lentissimo processo di conoscenza con il Sé più autentico, innocente e non addomesticabile, quello ferocemente puro. Conoscere la Donna Selvaggia è poi un processo continuo che dura tutta la vita.
Ve lo dico subito: le porte sul mondo del Sé selvaggio sono poche, ma preziose. Se avete una cicatrice profonda, questa è una porta. Se amate il cielo e l’acqua tanto da non poterlo quasi sopportare, questa è una porta. Se desiderate fortemente una vita più profonda, una vita piena, una vita sana, questa è una porta. Il segreto è l’integrità e lo sguardo vigile, la pelle ora fine ora dura; il segreto è non ignorare nei giorni oscuri el hambre del alma, la fame dell’anima; è riconoscerne le tracce nella vita di ogni giorno, riconoscere sé stessi nei miti sapienti. Il segreto è non dimenticare la relazione fondamentale con il femminile, la parte più autentica dell’essere donna. Il segreto è leggere e ascoltare, perché anche una singola frase può risultare a volte così esatta da farci ricordare, almeno per un attimo, quella sostanza di cui siamo realmente fatte, e dove si trova la nostra vera casa.
E quella nostalgia di cui si parlava nell’incipit che sapore ha? Da dove proviene? Ci sentiamo avvolte in una nostalgia spesso aggressiva quando veniamo poste davanti alla riscoperta di un tempo ormai perduto, che avremmo potuto dedicare al falò o al sogno, alla vita creativa, al lavoro della propria vita, o ai veri amori. Deprivate di una simile qualità di tempo, ci struggiamo per non aver goduto di spettacoli di grande bellezza, per non aver danzato e cantato al ritmo di un tamburo, o forse a quello del cuore. E allora ci mettiamo a correre per riafferrare proprio quel tempo perduto ma anche l’essenza della madre selvaggia, della guida intima per la quale si combatterà ancora e ancora perché senza di lei gli occhi interiori sono chiusi da una mano indistinta. Autorizzate quindi dalla natura a prosperare e a sciogliere i capelli, la vita creativa delle donne fiorisce, le relazioni acquistano significato, profondità e salute, si ristabiliscono i cicli della sessualità, del lavoro e del gioco.
Per fortuna, qualche seme selvaggio sopravvive sempre, portato dal vento. Perché la Donna Selvaggia appartiene a tutte le donne, che siate introverse o estroverse, donne amanti di donne o di uomini, o di Dio, o tutto insieme, che possediate un cuore semplice o le ambizioni di un’amazzone, che stiate cercando di arrivare in cima o soltanto a domani. Streghe, viandanti, artisti, selvaggi e pensatori sono coloro che cantano sulla carne di questa entità che torna a coprire le loro fragili ossa, coloro che si spogliano dagli abiti che sono stati dati loro, che sciolgono le bende, che preparano i balsami mentre La Loba, La Donna-Lupa si risveglia e urla la sua rinascita.
La storia della Donna-Lupa accende tutte le altre che, dopo aver inseguito un indesiderato intruso e recuperato l’intuito primordiale, ci narrano della Donna Selvaggia in relazione con il branco, con la famiglia, con l’uomo che la riconosce come tale, della loro unione e della sua grazia nell’appartenere. Queste fiabe ibride e autentiche (Barbablù, La piccola fiammiferaia, Vasilissa, Il brutto anattroccolo) si presentano l’una dopo l’altra come sezioni distinte del volume di Clarissa Pinkola Estés, ma sezioni a porte aperte e comunicanti che ci mostrano, infine, il ritorno a casa della Donna Selvaggia, il ritorno a sé, passando prima per il corpo, suo e altrui, per la nativa carne, il calore, l’autoconservazione e le cicatrici di un corpo liberato. Quello della Donna Selvaggia è un corpo che corre nella notte, coi lupi e con se stessa. Che non ha più nostalgia.