Aveva già annunciato di volerla abbandonare e ora, dopo pochi mesi, la Turchia conferma il suo ritiro dalla Convenzione di Istanbul. Il Paese che ha ospitato la firma del trattato ha deciso di tornare sui propri passi e di rinnegare quella necessaria tutela delle donne concordata nel 2011. Ma se anche il primo firmatario rinuncia a parteciparvi, cosa resta a salvaguardia femminile non è molto chiaro.
Il trattato ha – o aveva? – l’obiettivo di definire i reati legati alla violenza di genere, in modo da offrire una solida base giuridica per la tutela delle donne, ancora oggi vittime di un sistema iniquo e parziale che non è in grado di agire culturalmente subordinandole tutt’oggi all’uomo. In particolare, il documento punta a creare sinergia tra i vari attori che dovrebbero agire nei contesti di violenza. Infatti, oltre alle mancanze dell’apparato culturale e, in alcuni Paesi, al necessario aggiornamento delle dinamiche giuridiche, ciò che manca alla difesa delle donne è un coordinamento tra polizia, giustizia, politica e media che permetta loro di agire contemporaneamente e sullo stesso fronte.
La Convenzione di Istanbul è nata proprio per questo da un’iniziativa del Consiglio Europeo, che aveva l’obiettivo di creare uno strumento internazionale che fosse il più possibile vincolante e che si occupasse della lotta alla violenza domestica e contro le donne in generale. Così vincolante, però, non si è dimostrata, dato che la Turchia è il secondo Paese che se ne tira fuori. In effetti, a sentire di tutti gli accordi traditi e abbandonati, c’è da chiedersi a cosa serva, esattamente, stringerli, se poi disattenderli non comporta alcuna conseguenza. Le condanne americana, francese e tedesca giunte immediatamente serviranno dunque a poco, se non comprenderanno sanzioni o prese di posizione più incisive.
Sono innumerevoli i motivi che possono portare un leader politico a rinnegare accordi accettati pochi anni prima. C’è da dire, però, che, purtroppo, l’adesione alla Convenzione di Istanbul non è mai stata, per la Turchia, garanzia di parità. Anzi, in verità Erdoğan ha spesso utilizzato l’adesione come prova di una presunta attenzione nei confronti dei diritti delle donne, sebbene si trattasse quasi sempre di apparenza. Oggi, invece, questa necessità sembra non essere più una priorità neanche sulla carta.
Proprio come aveva fatto la Polonia un anno fa, anche in Turchia è la religione a decidere e a giustificare il ritiro dagli accordi. Che si tratti di credi differenti poco importa, il succo è sempre lo stesso: la tutela delle donne espressa all’interno del trattato incoraggia il divorzio e l’omosessualità, scabrose pratiche che la religione non ammette, ma che lo Stato dovrebbe.
Come sta accadendo fin troppo spesso, per scindere i rapporti con l’Occidente e per stringere più incisive alleanze con i lati maggiormente conservatori della destra, molti Paesi iniziano a sottrarre diritti e tutela alle donne. È esattamente ciò che sta succedendo in Turchia: Erdoğan ha bisogno di ingraziarsi le fila più radicali del suo partito e accattivare quella fetta di elettori che si definiscono conservatori ma che, in realtà, sfruttano la scusa di antichi e saldi valori tradizionali da tutelare per legittimare il bisogno di controllare e sottomettere la popolazione femminile. Il vicepresidente turco, dopotutto, ha sottolineato che per tutelare le donne non è necessario legarsi ai valori stranieri, e che le sue concittadine saranno onorate nel rispetto della tradizione e dei costumi del Paese. Che queste tradizioni implichino violenza e sottomissione non c’era bisogno di specificarlo.
La tutela delle donne resta una questione estremamente spinosa in numerose nazioni. Con la scusa che cercare la parità comporta conseguenze che minacciano i valori tradizionali, si dichiara implicitamente che è la parità stessa a minacciarli, tradendo dunque la reale posizione espressa da tali punti di vista. La situazione in Turchia, d’altro canto, è molto lontana dall’essere egualitaria. Secondo le stime dell’OMS, il 40% delle donne turche è vittima di violenza domestica. Nell’arco di tutto il 2020, poi, ci sono stati 300 femminicidi e altre 170 donne sono morte in condizioni sospette.
Ciò che accade nel Paese che ha ospitato la ratifica della Convenzione di Istanbul, tuttavia, non è diverso da ciò che accade in Polonia o in Ungheria: le decisioni di un governo autoritario sono espressione di una cultura popolare che si fa chiamare conservatrice, ma che ha tutta l’aria dell’intolleranza. Eppure, non è neanche tanto diverso da ciò che accade in Italia, quando si tenta di negare l’aborto o si sostiene che il ruolo delle donne si esaurisca nel lavoro di cura. Dopotutto, gli sforzi giuridici e gli accordi apparentemente vincolanti non hanno molto valore se tradirli non comporta alcuna conseguenza. E, soprattutto, se si lascia che la credenza comune continui a giustificare la violenza sui corpi e sulle libertà delle donne, che ancora non trovano la parità neanche da queste parti.