Poche settimane fa la Polonia aveva annunciato l’intenzione di uscire dalla Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale contro la violenza domestica e di genere. In seguito alla notizia, però, un altro Paese, tanto diverso per impostazione religiosa quanto simile in merito a diritti e libertà, ha mostrato l’intenzione di abbandonare il documento che porta il nome di una delle sue maggiori e più importanti città, la vecchia Costantinopoli testimone dell’eredità lasciata dai grandi imperi del passato. Nonostante ne sia stata la prima firmataria, infatti, adesso anche la Turchia vuole rinnegarlo.
Alcuni esponenti del governo di Erdoğan hanno recentemente dichiarato di voler prendere le distanze dalla Convenzione, preoccupati della minaccia che i suoi principi sembrano rappresentare per la loro sana e secolare idea di famiglia. Il trattato, però, è nato con l’obiettivo di ridurre la violenza di genere, che appare ancora lontana dall’essere debellata in gran parte dell’Europa, e avrebbe dovuto funzionare come strumento vincolante per i Paesi aderenti, sebbene queste ultime diserzioni stiano dimostrando la scarsa efficacia del vincolo giuridico.
Indubbiamente, la Turchia non è un Paese rinomato per il rispetto dei diritti umani, ma rinnegare i principi espressi nel documento potrebbe peggiorare ulteriormente una situazione tutt’altro che rosea. Negli ultimi anni i femminicidi non solo non sono diminuiti, ma sono addirittura aumentati: 2500 vittime in appena un decennio, di cui 474 nel 2019. Alle generazioni più conservatrici che richiedono l’uscita dalla Convenzione si oppongono i giovani, tornati a protestare in seguito all’assassinio di Pinar Gultekin, la studentessa uccisa dall’ex fidanzato la cui morte ha riportato all’attenzione mediatica i numeri allarmanti.
Non si può certamente dire che la violenza domestica e quella di genere non siano un problema anche in Italia, la cui cultura tende a sminuirne la gravità, ma in un Paese come la Turchia, dove vige un’idea di nucleo familiare ancora più oppressiva e retrograda, la questione non può essere sottovalutata. Sia la Turchia, territorio a maggioranza musulmana, sia la Polonia, estremamente cattolica, hanno messo al centro della discussione la minaccia alla famiglia tradizionale. L’appello al concetto di famiglia, però, è fortemente controverso e rende più difficile il dibattito sul tema delle disparità. Essa, seppur regolata da dinamiche diverse di nazione in nazione, è riconosciuta da ogni cultura e da ogni religione come un’istituzione fondamentale. Proprio per questo è molto difficile metterne in discussione i fondamenti, anche all’interno di quelle strutture culturali in cui la stessa è basata sulle disuguaglianze e sull’oppressione.
Ed è proprio qui che sta – o dovrebbe stare – la forza della Convenzione di Istanbul, che riconosce un collegamento tra la violenza e la disuguaglianza di genere: si tende spesso a sottovalutare, infatti, quanto la prima sia generata dalla seconda e quanto le disuguaglianze siano la causa di innumerevoli tipi di violenze spesso non riconosciute come tali, come quella economica o quella psicologica. Non si parlerebbe di violenza di genere, allora, né del tanto discusso femminicidio, se il fattore scatenante non fosse l’affermazione della supremazia dell’uomo sulla donna e quell’annientamento dell’identità in favore della subordinazione predicata dal patriarcato.
Intorno al concetto di femminicidio, infatti, nascono spesso numerose polemiche, secondo cui il termine sarebbe offensivo e discriminatorio nei confronti degli uomini tanto che all’esistenza del vocabolo in questione dovrebbe corrispondere maschicidio. Si tratta di polemiche sterili, che non includono – o non vogliono riconoscere – il significato dietro il concetto di annientamento, l’omicidio o la violenza perpetrati grazie alla convinzione di possedere un altro essere umano dichiaratamente inferiore. Discussioni prive di fondamenta, non diverse da quelle che animano il movimento all lives matter o l’acclamata legge contro l’eterofobia, che hanno l’unico scopo di sminuire le questioni legate alle discriminazioni e svilirne l’importanza, cancellandone la necessità.
Ma mentre in Turchia temono per la salvezza della famiglia – una famiglia evidentemente creata su un gerarchico modello patriarcale – forse giunge la consapevolezza che l’unico strumento in grado di mettere in discussione i legami familiari è l’oppressione. Pare, infatti, che il timore che la libertà possa dividere più di un’unione forzata sia stato smentito dalle parole Sumeyye Erdoğan. La più giovane dei figli del Presidente turco, nonché Vicepresidente dell’associazione femminile KADEM, si è esposta pubblicamente a favore della Convenzione di Istanbul. Contrariamente alla linea politica intrapresa dal governo del padre, Sumeyye ha dichiarato che le norme che dovrebbero derivare dalle linee guida della Convenzione sono oltremodo necessarie. La sua più efficace affermazione riguarda proprio il concetto di famiglia, per la cui incolumità si teme tanto, ma che non è degna di una tale definizione quando è formata da parti oppresse e da vittime di violenza.
La sua posizione, in contrasto con quelle del padre e del fratello maggiore, non dovrebbe essere interpretata come una lotta tra generazioni, né tantomeno come una lotta tra generi. Ha forse più l’aria di una crepa all’interno della famiglia, quell’istituzione intoccabile la cui sacralità non è mai stata violata dall’affermazione dei diritti, ma che invece è stata spesso lo strumento con cui perpetrare le oppressioni e attraverso cui controllare gli oppressi. Ma se è certo che la disapprovazione della figlia di un dittatore non potrà cambiare il mondo, è altrettanto vero che l’espressione della sua posizione può rappresentare il segno di una speranza che qualcosa cambi davvero.