Lo scorso 14 ottobre, il Partito Democratico, nato dalla fusione dei Democratici di Sinistra e La Margherita, ha compiuto quindici anni. Il suo primo Segretario è stato Walter Veltroni, seguito poi da Franceschini, Bersani, Renzi, dai reggenti Epifani e Orfini, da Nicola Zingaretti ed Enrico Letta, che ha scelto di non fare un passo indietro a differenza dell’ex Sindaco di Roma che rassegnò le proprie dimissioni il 17 febbraio del 2009 dopo la solenni sconfitte alle Politiche dell’aprile 2008 e alle Regionali in Sardegna dell’anno successivo.
Dopo il recente tonfo alle ultime elezioni, infatti, Letta ha annunciato il congresso previsto agli inizi del prossimo anno e la sua ipotizzabile mancata ricandidatura. Con una media per segretario o reggente che sia di un biennio – due anni circa Veltroni, nove mesi Franceschini, tre anni e cinque mesi Bersani, sette mesi Epifani, tre anni e due mesi Renzi, tre mesi Orfini, dieci mesi nuovamente Renzi, quattro mesi Martina e due anni Zingaretti – Letta in carica dal 14 marzo del 2021 è un dato po’ insolito nel panorama politico italiano, un segnale evidente di insofferenza interna comprensibilmente dovuta ad anime di provenienza diversa e a una vecchia realtà dei partiti non sempre positiva, sinonimo di dibattito democratico.
Parliamo del sistema delle correnti che caratterizzò la cosiddetta Prima Repubblica e che non risparmiò alcuna forza politica, un’alternanza tra ex PCI e DC che hanno fatto sempre fatica a trovare una strada e un progetto comune per costruire una grande forza di sinistra in chiave moderna. Una su tutte la Segreteria politica di Matteo Renzi capace di rottamare il partito con la sua visione del tutto personalistica e con ben altri fini, un fallimento non solo come segretario ma anche come capo di un governo che volle misurare il proprio consenso con la scusa di un referendum costituzionale. E sappiamo bene come andò a finire.
Prerogativa del Partito Democratico è stata sempre la capacità di offuscare la propria identità preoccupandosi invece, in particolare nelle realtà territoriali, di alleanze strategiche di solo potere e di apparentamenti di dubbio gusto, come accaduto a Napoli in occasione delle Regionali e delle Comunali, senza intervenire mai con coraggio e determinazione ma consentendo fughe e personalismi.
Si dirà che la crisi dei partiti non riguarda il solo PD, ma tra quelli maggiormente storici pare sia l’unico all’eterna ricerca di un’identità di riferimento, una linea politica chiara che si rifaccia ai valori originari al contrario di un’etichettatura falsa di partito della sinistra in cui lavoratori ed ex militanti delle due forze non sembra si siano identificati, dando il proprio consenso ad altre realtà, nella disperazione sperando persino nei pentastellati e nella Lega.
Il PD, dunque, va verso il congresso in maniera un po’ anomala, con un Segretario perdente e non dimissionario, una fase del tutto atipica volta maggiormente o soltanto all’individuazione di un leader tra personaggi pronti a candidarsi alle primarie in assenza di un serio dibattito sull’esigenza di rivedere i valori fondanti del partito, una possibile rifondazione dello stesso o addirittura anche il cambio di nome.
Il confronto sembra ormai centrato su due volti, quello di Bonaccini e Schlein, che hanno fatto tuonare Rosy Bindi con un duro giudizio: «Non credo che con Bonaccini e Nardella il PD possa essere di sinistra. Non si sono fatti i conti col renzismo, e non si faranno con due protagonisti di quella stagione». E su Schlein: «Fatico a vedere in lei una sinistra di governo».
Insomma, al di là delle valutazioni molto dure della Bindi, la verità è che in vista del congresso si sta procedendo unicamente sulla strada delle due candidature degli esponenti emiliani del partito, un derby per niente interessante anche se qualche organo di informazione di sinistra come Il Manifesto non ha esitato a dare man forte alla Schlein: A noi, che siamo partecipanti al dibattito e non solo osservatori, interessa la candidatura di Elly Schlein perché se non altro è una boccata d’ossigeno per quella cultura politica di sinistra da tempo sepolta, nascosta, negata.
Sarà, potrebbe anche essere, ma non risulta da nessuna parte l’appartenenza a quella cultura politica di sinistra né tantomeno a quella cultura popolare di autentica sinistra. A Il Manifesto, però, basta: E lo fa mettendo in campo la sua carta d’identità, il suo essere femminista, lesbica, ambientalista, socialista (come del resto testimonia la storia della sua famiglia).
Non va meglio per Stefano Bonaccini, l’altro candidato alla segreteria che sembra riscuotere i maggiori consensi. La sua provenienza dal PCI non è una tessera che ne certifica l’attuale identità di sinistra: la sua fedeltà a Renzi e l’appoggio dell’altro ex renziano il Sindaco di Firenze Nardella, il suo ruolo decisivo con i Presidenti di Veneto e Lombardia per l’attuazione dell’autonomia differenziata non presagiscono nulla di buono per un partito che intende rifarsi una verginità nella sinistra e nel Paese. Tuttavia, potrebbe anche ipotizzarsi l’eventuale vittoria del Presidente della Regione Emilia-Romagna come una possibilità di allungare di nuovo le mani sul partito da parte della mina vagante della democrazia che non convince ancora sulla costituzione di un asse di lunga durata con l’onnipresente Carlo Calenda.
Mancano ancora alcuni mesi al congresso del Partito Democratico e non si può escludere alcun colpo a sorpresa, nella speranza che nel frattempo si ricordi di essere opposizione a questo governo perché non sembra che finora se ne sia mai reso conto.