Pochi giorni fa, il Tribunale di Torino ha confermato la sorveglianza speciale per Maria Edgarda Marcucci, ex combattente dell’unità curda femminile YPJ, considerata dal 17 marzo scorso socialmente pericolosa e quindi costretta a vivere subendo numerose limitazioni della sua libertà personale: dall’obbligo di portare sempre con sé la cosiddetta carta precettiva, un libretto rosso su cui l’autorità annota qualsiasi suo spostamento autorizzato dalla questura, fino al divieto di uscire di casa dalle 21 alle 7 di mattina, abbandonare il capoluogo piemontese e partecipare a riunioni pubbliche e manifestazioni.
La conferma della misura ha, ancora una volta, una matrice completamente ideologica e presenta delle motivazioni assolutamente paradossali, con il solo scopo di colpire Eddi quale rappresentante di quella parte della società che manifesta il proprio dissenso e fa attivismo politico. Manca, infatti, qualsiasi architettura di natura giuridica nella decisione. Addirittura, il Tribunale è arrivato ad affermare di dover lateralizzare la vicenda siriana poiché essa ha ceduto il passo a ben più gravi attività politiche svolte in Italia. Eppure, la storia giudiziaria di Eddi prende le mosse proprio dalla tristemente famosa equazione tra l’utilizzo delle armi in Siria contro l’ISIS e la pericolosità sociale, che è conditio sine qua non dell’intero processo. Così, per non smentire la rappresentazione pubblica dell’ISIS come nemico – che verrebbe intaccata se fosse condannato proprio chi ha tentato di combatterlo –, i giudici decidono di criminalizzare condotte che non hanno alcuna rilevanza penale per poi tracciare un quadro psicologico, quasi clinico, di Marcucci per definirla soggetto pericoloso.
Viene presa in considerazione la partecipazione a manifestazioni universitarie a tutela dell’ambiente o contro l’invasione turca del Rojava, ma il processo non si basa su fatti bensì su impressioni e segnalazioni di poliziotti o di membri della Digos. Basti pensare che il Tribunale non si fa alcun problema a mettere per iscritto che un agente ha minacciato Maria Edgarda di prenderla a schiaffi poiché il suo unico scopo è sottolinearne le reazioni scomposte. Si legge, infatti, che Eddi presenta un’intolleranza verso il libero confronto delle idee, dunque si possono prevedere future aggressioni contro chi non sia in sintonia con il suo pensiero. E tale presunta intolleranza viene dedotta dall’atteggiamento dell’ex combattente durante l’opposizione a una manifestazione dichiaratamente neofascista organizzata in facoltà.
Ricordiamo che tra i fatti maggiormente rilevanti presi in considerazione per la decisione del 17 marzo c’era un’azione presso la Camera di Commercio di Torino del 25 novembre 2019, quando, a pochi giorni dall’operazione turca contro il Rojava, il Ministro degli Esteri e quello della Difesa italiani sponsorizzavano un intero panel dedicato ai rapporti economici tra Italia e Turchia e, dunque, la compravendita di armi. Il giudice, infatti, riteneva quella manifestazione del dissenso ingiustificata poiché la compravendita non stava avvenendo in quel momento.
Non è la prima volta, purtroppo, che la Procura e il Tribunale di Torino fanno sentire il loro peso politico sul territorio: è quanto avvenuto già contro numerosi attivisti NO TAV, ultime dei quali Nicoletta Dosio e Dana Lauriola, condannate entrambe alla detenzione per aver partecipato a manifestazioni e blocchi stradali per opporsi alla costruzione della linea ad alta velocità Torino-Lione in difesa della Val di Susa e delle sue bellezze naturali. Come loro, anche Eddi è considerata pericolosa perché attivista: ciò che conta non sono i fatti, penalmente irrilevanti, bensì la sua persona e ne è conferma l’espressione utilizzata nella decisione in base alla quale l’ex combattente risulterebbe solo formalmente incensurata. Dunque, pur non sussistendo alcuna condanna né precedente penale, il giudizio è già negli occhi di chi scrive che considera le sue azioni da criminalizzare.
Per la prima volta, dunque, la sorveglianza speciale – eredità dell’epoca fascista che si configura come una vera e propria pena del sospetto e che ha destato non poche perplessità rispetto alla sua compatibilità con il principio di legalità, oltre che con la presunzione di innocenza – viene applicata a chi va a combattere in territori di guerra e, per tale motivo, rischia di diventare un pericoloso precedente. Inoltre, su queste basi, chiunque abbia praticato attivismo politico o manifestato il proprio dissenso potrà vedersi applicata una simile misura, che altro non è che non uno strumento di carattere repressivo e controllo che rischia di sfociare in valutazioni del tutto discrezionali.
Al centro della decisione e della sua conferma, c’è la persona di Eddi, c’è il suo credo: nulla che riguardi i fatti può essere preso in considerazione. Paradossalmente, si arriva a dire che la sua si configura come una vita criminale interrotta solo dall’anno in Siria. Eppure è proprio quell’anno in Siria che ha portato Eddi in tribunale, finendo per vedersi comminare una condanna che con esso non ha nulla a che vedere. Si tratta sicuramente dell’ennesima dimostrazione del declino verso cui la giustizia – in questo caso torinese – e la politica si stanno dirigendo. E, mentre un’ex combattente YPJ viene ritenuta socialmente pericolosa, gli attacchi jihadisti proseguono, forti della regia turca alle loro spalle che si nutre delle armi e del sostegno italiano. Il tutto in un assordante silenzio.