Sarà che le elezioni europee sono ormai dietro l’angolo, o forse no, ma sta di fatto che non può non suscitare stupore leggere tra le colonne de Il Sole 24 Ore di giovedì 13 settembre che il Presidente Emmanuel Macron ha annunciato – per altro, senza alcuna originalità – l’introduzione di un reddito universale di attività entro il 2020, definendolo piano povertà (da 8 milioni di euro), attraverso cui punta a garantire che tutti possano vivere degnamente. Sì, ma a spese di chi?
Facciamo un piccolo passo indietro e torniamo per una attimo a parlare di Libia, dove la situazione politica, per quanto parzialmente rientrata sotto la supervisione e dunque il controllo diplomatico esercitato da parte delle Nazioni Unite, paga in ogni caso il prezzo di divisioni tribali all’interno delle quali ciascun governo tenta di inserirsi per poter continuare indisturbatamente a garantire i propri interessi inerenti lo sfruttamento di risorse presenti in quei territori che per il momento restano pur sempre affidati, almeno formalmente, alle cure del generale Fayez al Sarraj, non riconosciuto quale interlocutore ufficiale sul piano delle relazioni internazionali da parte del solo Presidente francese, che fa ancora molta fatica a comprendere che se la Francia è francofona, è altrettanto vero che la francofonia non è francese (Calixthe Beyala), né altre popolazioni intendono diventare francofone, tantomeno francesi.
Lo sa bene Mohamed Konare, leader del Movimento Panafricano, attraverso le cui parole apprendiamo quello che tutti sanno, ma che nessuno dice: l’Africa non ha mai conosciuto liberté, né égalité e ancor meno fraternité, pertanto è ora di portare la rivoluzione, una volta per tutte, anche nel continente nero a partire innanzitutto da quei territori ex coloniali tuttora strozzati dal giogo francese attraverso una malapianta chiamata indipendenza che affonda le sue stritolanti radici nel franco CFA, moneta utilizzata presso le colonie francesi d’Africa fino agli anni Sessanta, a partir dai quali fu ridefinito, a seguito di un’astuta strategia di “decolonizzazione” voluta e perseguita da Charles De Gaulle, come franco della Comunità Finanziaria Africana (riprodotto sulla base del sistema monetario nazista imposto a suo tempo dalla Germania di Hitler alla Repubblica di Vichy), tramite cui ancora oggi vengono imposti vincoli che disconoscono il diritto naturale degli Stati africani a cercare una via verso lo sviluppo delle proprie economie e la conseguente emancipazione sociale e civile che ne deriverebbe.
La prima condizione a cui i quattordici Paesi CFA sono sottoposti prevede l’obbligo di depositare il 50% delle loro riserve monetarie presso i caveaux d’Oltralpe. In buona sostanza, se uno di essi esporta verso un Paese terzo e guadagna dollari o euro, è costretto a trasferire la metà di questo incasso presso la Banca di Francia. Un sistema al quale non sfugge nulla, in quanto gli accordi prevedono che vi siano rappresentati di Parigi, con diritto di veto, sia nei consigli d’amministrazione che in quelli di sorveglianza delle istituzioni finanziarie delle ex colonie. Ma siccome tutto questo non è abbastanza, tra le innumerevoli ulteriori restrizioni imposte, vi è anche il primo diritto per la Repubblica Transalpina di comprare qualsiasi risorsa naturale scoperta nei territori di vecchio dominio. Da qui il controllo diretto su materie prime di valore strategico come uranio, oro, petrolio, gas, caffè o cacao. Soltanto dopo un esplicito non interesse francese i quattordici Stati possono individuare altri acquirenti. In pratica, è giusto affermare che gli africani vivono in Paesi di proprietà dei francesi, mentre a loro la Francia da sempre lascia solo le briciole e spesso neppure quelle.
Grazie a questo trasferimento di ricchezza monetaria e sostanziale, dunque, la nazione di Macron investe massicciamente in propri titoli di Stato grazie ai quali ha potuto e può finanziare una spesa pubblica ignara anche dei vincoli di Maastricht. Ecco quindi che, riletto in questa chiave, anche il destino di tutti quei migranti che periodicamente raggiungono le nostre coste non appare più come una pura e semplice questione di emergenza umanitaria ma coincide, nei fatti, con lo stesso destino su cui l’Europa sta vendendo o forse ha già venduto cara la propria pelle, che è poi quella di un’UE costituita da Paesi impiccati a una moneta senza Stato ricalcata sul modello del franco CFA in nome e per conto di interessi speculativi che tollerano solo cani da guardia e non governanti, né interessi nazionali da ricomporre, invece, secondo una logica di solidarietà reciproca. E allora, forse, un commonwealth mediterraneo tra Paesi liberamente disposti a esser fratelli, fondato sul riconoscimento reciproco del nòmos altrui e dunque senza che nessuno si faccia gendarme morale allo scopo di arrecare danno materiale all’altro, è probabilmente l’unica via da percorre verso un utopistico quanto auspicabile scampo dagli attacchi di chi vede il mare nostrum come pura e “semplice” terra di conquista. Va da sé che tutto ciò potrà realizzarsi solo nel momento in cui la comunità internazionale riuscirà a indurre tutte le attuali potenze neo-coloniali, Francia (e Gran Bretagna) in primis, a dismettere le proprie pretese di “protezione” esercitate sulla Libia come sul resto dell’Africa in nome della necessità materiale di autodeterminazione espressa da parte delle popolazioni di Paesi quali Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo. Popolazioni che oggi, invece, continuano a essere schiacciate da tutta una serie di vincoli a cui lo Stato francese ancora le sottopone, costringendo il resto d’Europa a fare la parte della bad company su cui scaricare i costi dei suoi lauti proventi ottenuti a suon di sudore, morte ed emigrazione di massa altrui, con buona pace di una “sinistra” che, anziché guidare i mutamenti epocali della storia a vantaggio degli ultimi, accusa di fascismo quegli stessi ultimi (uomini liberi) con l’illusione di riuscire a salvare ciò che rimane dell’ombra di se stessa.
È ormai noto quel che Mitterrand disse nel 1957, quando candidamente affermò che senza l’Africa la Francia non avrà storia nel XXI secolo, viste le sofferenze che tutto questo arreca ormai da qualche decennio anche al resto delle popolazioni europee. È ora, dunque, che un Paese così smetta di avere una storia, quantomeno non più rubandola e costruendola a spese, sulla pelle e a danno della dignità di altri popoli.