75190: Liliana Segre, la guerra, ce l’ha incisa sull’avambraccio. Se la porta dietro da sempre, dal febbraio del 1944 quando, dopo sette giorni di viaggio, arrivò nel campo di concentramento di Auschwitz. Con lei quel padre che non avrebbe rivisto più.
Il loro addio era iniziato poco prima, il 30 gennaio. Quel giorno, insieme, erano stati portati via dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano, Liliana aveva soltanto 13 anni. Già orfana di una madre morta pochi mesi dopo la sua nascita, era cresciuta con Alberto, suo papà, e con i nonni paterni, anche loro catturati e deportati in Polonia nel giugno del ’44. La sua vita, però, si era scoperta diversa nel 1938 quando, in seguito all’approvazione delle leggi razziali fasciste, in qualità di ebrea era stata espulsa da scuola, costretta a rifugiarsi presso amici di famiglia con l’ausilio di documenti falsi.
Nemmeno il successivo tentativo di fuga in Svizzera le aveva garantito una qualche forma di normalità: arrestata in provincia di Varese, ad Auschwitz Liliana fu costretta a un anno di lavori forzati presso la Union, una fabbrica di munizioni. Soltanto l’Armata Rossa, il primo maggio 1945, riuscì a portarla via da Malchow – sottocampo di Ravensbrück – per regalare a noi, generazioni future, il privilegio della sua testimonianza, la forza di una bambina, oggi grande donna, sopravvissuta all’inferno da cui poterono tornare a vedere la luce appena 25 dei 776 minorenni italiani di età inferiore ai 14 anni deportati nella più nota fabbrica della morte.
Dal 2018, per volere del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Liliana Segre è Senatrice a vita, una carica che ricopre con pudore e orgoglio, consapevole di quanto la sua voce sia, nella società contemporanea, un grido di denuncia importante, un appello al presente affinché chiuda le porte a un passato mai relegato ai libri di storia. Ed è proprio a lei, alla Senatrice Segre, che è stata intitolata la nuova commissione monocamerale approvata a Palazzo Madama, tristemente non senza polemiche.
Lo scorso 30 ottobre, infatti, il Senato ha votato l’istituzione di uno strumento di controllo per il contrasto dei fenomeni di intolleranza e razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza. Sostenuta dai 151 voti favorevoli della maggioranza, però, la mozione n.136 non ha ottenuto l’unanimità sperata: Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno pensato bene di astenersi, a conferma della loro posizione fuori e dentro le mura istituzionali, fuori e dentro i limiti della democrazia. Il lungo applauso che ha travolto l’emiciclo al termine della votazione a sostegno della prima firmataria della mozione, quella bambina sopravvissuta alla Shoah, non è bastato a nasconderne l’amarezza: «Speravo che sull’odio in generale il Senato sarebbe stato festante e avrebbe trovato una sintonia», ha commentato la Senatrice. E, invece, troppi inquilini di Palazzo Madama hanno colto soltanto l’ennesima occasione per ribadire il proprio abusivismo costituzionale.
Le cospicue astensioni hanno scatenato reazioni diverse, sia all’interno della maggioranza sia della stessa opposizione. Su tutti, dura nei confronti dei suoi, la Vicepresidente della Camera Mara Carfagna: «[…] Stiamo tradendo i nostri valori e cambiando pelle». Ma forse, più che i valori del partito voluto da Silvio Berlusconi – sui quali, per l’occasione, soprassediamo – a cambiare pelle sembrano, più in generale, i valori o presunti tali di un centrodestra che mai, fino alla formazione attuale capitanata da Matteo Salvini, si era spinto così oltre sul tema, in modo deciso e compatto. Non è un caso, dunque, che alcuni senatori di FI – comunque astenutisi – abbiano sentito la necessità di chiarire la propria posizione in un’ottica di opportunismo politico o, nella migliore delle ipotesi, di disagio nei confronti dei propri elettori.
Non fa specie, invece, che Lega e Fratelli d’Italia non abbiano avuto alcun dubbio sulla votazione. Sulla scia della No Hate Parliamentary Alliance istituita di recente dal Consiglio d’Europa, infatti, la Commissione Segre mira al contrasto di qualsiasi forma di odio, in particolare il cosiddetto hate speech, che negli ultimi anni, in particolare, ha generato una crescente spirale di fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e fascismo. Fenomeni che pervadono la scena pubblica e, soprattutto, la scena politica grazie ai moderni mezzi di comunicazione, come i social, divisi tra il cyberbullismo e le fake news. Pane quotidiano per i sovranisti di casa nostra e non solo.
Sebbene non esista ancora una definizione normativa di hate speech, la mozione n.136 si è rifatta a una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 1997, secondo cui il termine copre tutte le forme di incitamento o giustificazione dell’odio razziale, xenofobia, antisemitismo, antislamismo, antigitanismo, discriminazione verso minoranze e immigrati sorrette da etnocentrismo o nazionalismo aggressivo: per meglio definire il fenomeno si ricorre alle categorie dell’incitamento, dell’istigazione o dell’apologia. Il termine incitamento può comprendere vari tipi di condotte: quelle dirette a commettere atti di violenza, ma anche l’elogio di atti del passato come la Shoah; ma incitamento è anche sostenere azioni come l’espulsione di un determinato gruppo di persone dal Paese o la distribuzione di materiale offensivo contro determinati gruppi. Chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale e chi incita a commettere atti di discriminazione o di violenza è incriminato a titolo di pericolo presunto quando il pregiudizio […] si trasforma da pensiero intimo del singolo a pensiero da diffondere in qualunque modo.
Nulla che in Italia non sia già ampiamente sperimentato. E nulla di cui la nostra politica non abbia ampia conoscenza, come attestato anche da una ricerca di Amnesty International – pubblicata in anteprima da L’Espresso – che ha analizzato e classificato i contenuti web degli esponenti dei vari partiti, in particolare nel periodo precedente le Elezioni Europee. Come prevedibile, ai primi posti, Matteo Salvini, molti dei suoi fedelissimi e Giorgia Meloni, i più attivi ma anche i maggiori fomentatori di hate speech.
Appare evidente, dunque, il motivo per il quale i sovranisti made in Italy non avrebbero mai potuto sostenere una mozione come quella presentata da Liliana Segre – anche lei vittima di una vergognosa violenza social che arriva a scatenarle contro fino a 200 messaggi al giorno intrisi di odio, antisemitismo e misoginia –, ripagati di tanto livore in cabina elettorale. Se la Commissione, coadiuvata dalle principali piattaforme e dagli organi di controllo internazionale, riuscisse davvero a inceppare la bestia populista, infatti, per i neofascisti di casa nostra la pacchia finirebbe davvero. E con essa un sistema ben più grande e allarmante di una qualunque chiamata alle urne, celato dietro il velo della libertà di espressione evocata da Salvini e Meloni, la coppia di fatto che più a destra non si può.
Non a caso, Lega e Fratelli d’Italia hanno parlato entrambi di una commissione volta alla censura politica, dell’istituzione di una struttura liberticida, del ministero della verità di orwelliana memoria. Nessuno dei due partiti, inoltre, ha fatto mancare il proprio disappunto per la parola nazionalismo che la mozione elencava tra i fenomeni da vincere al fine di una pacifica convivenza civile: «Non è illegale – ha tuonato la Meloni – e nemmeno chi diffonde gli stereotipi. Non voglio vivere in un regime, voglio vivere in una nazione in cui chi non la pensa come questi signori di sinistra non viene segnalato all’autorità giudiziaria». Nello specifico, il riferimento a sinistra era a Laura Boldrini, l’ossessione degli odiatori seriali: la proposta al Senato, infatti – dicono a destra –, dovrebbe portare il nome dell’ex Presidente dellla Camera che già in passato, con l’istituzione della Commissione Jo Cox, aveva provato a censurare chi non rispetta i canoni del politicamente corretto. Tradotto: a porre un limite alla libertà di offesa, spesso non solo verbale.
Ma gli estremisti non si sono fermati soltanto a lei, puntando il dito contro l’integralismo islamico, visto che il pericolo deriva proprio dal fondamentalismo e dall’immigrazione musulmana – a proposito di fake news – e alla risoluzione del Parlamento Europeo che ha accomunato nazismo e comunismo, in questo modo disattesa dall’Italia. Si è parlato, poi, di opinioni sulla cosiddetta famiglia tradizionale, di migranti illegali che mettono in pericolo la nostra civiltà e, per concludere, del prima gli italiani che – scopriamo oggi – non è discriminazione, ma tutela dei nostri connazionali. Insomma, tutti temi redditizi e cari alla propaganda sovranista, così vicina alla realizzazione del gran ritorno da non potersi permettere alcun ostacolo.
L’astensione al voto, d’altro canto, non ha scoperto alcun altarino, soltanto spostato il centrodestra ancora più a destra anche agli occhi di qualcuno di quei molti che ancora non sono convinti della pericolosità del duo Salvini-Meloni. Un duo che tra pieni poteri, divise, manganelli, marce su Roma, blocchi navali e navi da affondare non ha mai nascosto il proprio retaggio, tantomeno le proprie intenzioni: antidemocratiche, anticostituzionali, anti-italiane.
E, allora, ancor prima della speranza di una sinistra che sia veramente tale, forse tocca oggi chiedere a destra, quella meno a destra dei fascisti, di prendere seriamente le distanze, di riorganizzarsi, di riportare il dibattito e il futuro del Paese sui binari della legalità, delle libertà e della sovranità popolare che non è populista e non è nemmeno totalitarista. Perché, direbbe la Senatrice Segre, l’indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte: succede anche oggi, verso il razzismo e gli altri orrori del mondo. Succedeva ieri, quando Liliana aveva soltanto 13 anni e 75190 era per lei solo un codice senza senso.