Era il 1975 quando nelle sale del cinema arrivava Qualcuno volò sul nido del cuculo, film che ancora oggi crea non pochi problemi a chi vuol cercare di comprendere da che parte stia la follia e dove cominci invece la ragione o, per meglio dire, la presunta razionalità di una società, quella contemporanea, che vive la realtà come il web e il web come unico spazio dell’agire reale.
Il cuculo, tutti sanno, non fa il nido, ma lo ruba ad altri uccelli fino a impossessarsene, cosa che ai grandi e feroci colossi multinazionali del libero mercato riesce molto bene, avendo nella libera circolazione delle merci e dei flussi di capitale il proprio orizzonte di riferimento temporale nonché spaziale per un’azione sconfinata e, dunque, per sua natura intrinsecamente sovraordinata rispetto all’angusta dimensione nazional-popolare rappresentata da ogni singolo Staterello, che voglia dignitosamente tentare di sopravvivere sulla faccia di questo nostro piccolo frammento di universo, usualmente chiamato mondo.
Surfano sulle gigantesche onde anomale degli oceani della globalizzazione, schiantandosi violentemente al suolo sulle ossa fragili di abitanti inermi, timidamente adagiati sulle spiagge dell’etere ottico, attrezzati per accogliere solo piccoli flussi di (dis)informazioni. Ma, paradossalmente, pur a fronte di tali tsunami provenienti dal profondo della rete, anziché spostarsi per non lasciarsi travolgere, vanno loro convintamente incontro, abboccando agli ami di forze appartenenti alla natura neo-darwiniana di un mondo dove è normale veder prevalere il più forte sul più debole, poiché solo i forti costituiscono i soggetti più adatti a sopravvivere in un sistema senza leggi, se non quelle divoratrici del mercato. Perché, dunque, parlare ancora di Stato, democrazia costituzionale, servizi essenziali garantiti come l’istruzione, la sanità, la giustizia e l’ambiente se tutto può e deve essere privatizzato affinché possa funzionare meglio, con l’obiettivo di portare al cittadino, pardon, al consumatore, ciò di cui ha e avrà presumibilmente bisogno?
Ma siamo proprio sicuri che il cittadino-consumatore oggi, oltre ai pacchi trasbordati da e verso ogni angolo del globo terraqueo, abbia proprio necessità di veder piombare all’interno del proprio nido domestico anche lettere e documenti ufficiali, magari sensibili, inviati e ricevuti non più tramite un servizio di spedizioni efficientemente garantito e gestito in egual misura per tutti, bensì tramite i corrieri alati e sottopagati, assoldati per conto e nell’interesse esclusivo di Amazon? Eh sì, perché Jeff Bezos ce l’ha fatta: per chi ancora non lo sapesse, infatti, a partire dal 16 novembre scorso il colosso americano dell’e-commerce compare ufficialmente e con regolare licenza sull’elenco degli operatori postali pubblicato sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico, sotto le diciture Amazon Italia Logistica e Amazon Italia Transport.
Il cuculo ha dunque posizionato l’uovo con all’interno il suo pulcino, ora pronto a crescere a dismisura per prepararsi a soppiantare genitori e inutili fratelli putativi, cioè noi, che l’abbiamo inconsapevolmente accolto e adottato facendoci cacciar via di casa. Certo, per ora le attività consentite non incidono sul servizio universale, ovvero posta sopra i 2Kg e pacchi da 20 a 30 Kg, pony express, raccomandate urgenti, consegne con data e ora certa o altri servizi a valore aggiunto, ma la libera concorrenza è solo un fastidio momentaneo, un’inutile perdita di tempo. Ovviamente, qualcuno potrà liberamente obiettare che Poste Italiane è già un soggetto privato. Sì, è vero, ma a partecipazione pubblica, tramite il cospicuo sostegno garantito da parte di Cassa Depositi e Prestiti, ovvero gran parte dei nostri risparmi. Amazon parla invece un’altra lingua e soprattutto guarda all’Italia come a un qualunque nido collocato tra i rami degli alberi di una giungla senza regole chiamata liberismo, cosa ben diversa dal concetto di libertà, uguaglianza o fraternità che dovrebbero invece pervadere una normale società di libero scambio e circolazione di merci, capitali, servizi e soprattutto persone. Ma quanto è costato al magnate americano l’ottenimento di tale licenza/autorizzazione generale a operare come nuovo soggetto postale? Poco più del costo di un caffè pari a 300.000 euro di sanzione, che lo stesso businessman statunitense senza battere ciglio ha candidamente provveduto a corrispondere allo Stato italiano a seguito dell’intervento dell’Agcom (l’Autorità per le telecomunicazioni che ha competenza anche in materia postale), volto a bloccare lo svolgimento di attività logistiche legate alla consegna di pacchi o alla gestione dei centri di recapito (lockers), senza il necessario titolo autorizzativo.
Pagato dunque il caffè, dal costo evidentemente improponibile per la stragrande maggioranza di tutti noi normali, mortali cittadini italiani ed europei, ecco ottenuto il permesso a dilagare. Va dunque da sé che da questo momento in avanti si rende chiaramente esplicita la necessità di provare a organizzarsi per tentare una resistenza. Perché? Con quale motivazione dovremmo infatti continuare a preferire il piccolo bar di città, paese o provincia a fronte del meraviglioso mondo cosmopolita, nutrito di esotici flavours offerto da parte dello Starbucks delle spedizioni, fresco di licenza?
Semplice: vuoi mettere la varietà di personaggi che danno forma al mondo perfetto racchiuso, come in uno scrigno di gemme preziose, nel bar della Jole e i rutti al profumo di folpo alla fermata del treno, rispetto al puzzo del compromesso immorale da omologazione neofascista, emesso dall’intruglio che sa di pozzanghera post-temporale estivo, contenuto in uno spersonalizzante bicchierone di caffè americano? È l’evidente dittatura del non senso consumistico di pasoliniana memoria, che prende sempre più compiutamente forma.
Al contrario, Marco Paolini ci ha invece insegnato e continua a insegnarci, attraverso il suo teatro, quanto sia grande, polivalente e multidimensionale la provincia italiana con i suoi bar, le sue piazze, i suoi mercati rionali, i negozi sotto casa, i suoi uffici pubblici, compresi quelli postali, con tutto il loro multiforme paesaggio umano, così come abbiamo compreso, sempre grazie a lui, che tecnologia è tutto ciò che siamo costretti a imparare, perdendo una sacco di tempo ora, perché ci hanno detto che così dopo faremo prima. E allora perché mai dovremmo rinunciare alla vita scomoda e libera del cittadino che necessita di partecipazione per continuare a rimanere saldamente aggrappato al suo mondo in salita, a vantaggio di quella illusoriamente privilegiata del libero fruitore di massa che consuma, comodamente appiattito sulla propria poltrona acquistata via Amazon, innanzitutto se stesso? A chi scrive non è dato saperlo e, nonostante l’ingenuità che potrebbe apparentemente contraddistinguere certe profonde, nonché personali convinzioni, resta il fatto che tra libero e mercato, continua e continuererà ostinatamente a preferire la parola libero.