La settimana scorsa, Siracusa ha sfiorato la temperatura più alta mai raggiunta in Europa, oltre 48 gradi. Alluvioni senza precedenti, nel corso delle ultime settimane, hanno devastato territori di tutto il mondo, dalla Germania alla Cina. Intere aree dell’emisfero boreale, durante questa estate infernale, sono andate a fuoco, distruggendo la vita di animali e persone. Il mese scorso, alcune zone dell’Europa sono state devastate da un ciclone che non ha solo arrecato danni alle strutture, ma ha mietuto delle vittime. I giornali titolano di clima impazzito, incomprensibile, imprevedibile, ma l’unica cosa pazza, folle e scellerata è l’azione umana che ha causato tutto questo.
Quando nel corso degli ultimi anni – o decenni – si è parlato di emergenza climatica, lo si è sempre fatto come se si trattasse di qualcosa di non così imminente. Saranno state le enormi dimensioni del sistema di riferimento, sarà stato che l’aumento di temperatura riguardava decimi di grado e quindi appariva impercettibile, sarà stata l’assenza di lungimiranza e la tendenza a ragionare a breve termine, ma mai la parola emergenza ha avuto il peso che avrebbe dovuto avere. Sembrava quasi che veicolasse un significato troppo grande rispetto a quello reale, e dunque si è finito per ignorarne la gravità. Ma l’emergenza era vera, allora, ed è inequivocabile oggi. Sono bastate poche settimane per dimostrarlo.
Lo scorso 11 agosto, la stazione meteorologica di Siracusa ha registrato quegli sconvolgenti 48.8°C che sapevano tanto di allarme rosso. Quarantotto. Un numero che mai ci saremmo aspettati di leggere sul termometro, un numero che, certamente, non associamo alla vita né a un clima adatto alla sopravvivenza. Vero che l’afa che impedisce di respirare la stiamo percependo tutti, così come tutti stiamo soffrendo per il caldo asfissiante che, abituati al nostro clima mite, non siamo pronti a sopportare. Eppure di mite, il nostro clima, non ha più niente da anni. Non è sufficiente per comprendere le dimensioni dell’emergenza climatica?
L’ultima settimana del mese di luglio è stata devastante per diversi paesi europei. Il caldo di alcune zone non ha impedito alla grandine di cadere copiosa e causare danni in Svizzera, Belgio e Nord Italia. Le bombe d’acqua sono state improvvise e incredibili, le precipitazioni hanno raggiunto i 33 millimetri di pioggia in soli dieci minuti. Il vento ha raggiunto i 120 chilometri all’ora di velocità. A Londra alcune strade sono state distrutte dal maltempo, in Belgio auto e vagoni sono stati trascinati dall’acqua e dal fango per così tanti metri che parevano animati, danni per svariati milioni di euro sono stati causati dal brutto tempo estivo e decine di persone hanno perso la vita. Lo chiamano clima strano, invece sono solo eventi climatici estremi, sempre esistiti, ma che prima avevano una frequenza di alcune unità l’anno. Ora, con lo stravolgimento delle temperature, diventano alcune unità al mese. Non è sufficiente per comprendere le dimensioni dell’emergenza climatica?
Mentre la Sardegna brucia, mentre ettari di foresta vengono letteralmente divorati dalle fiamme in Italia, in California gli incendi hanno raggiunto dimensioni mai viste prima. Centinaia di persone hanno perso la vita non solo a causa del fuoco, ma anche a causa delle altissime temperature che gli incendi hanno generato nella zona. Intanto, le precipitazioni estreme e imprevedibili delle ultime settimane hanno causato 50 morti in Germania, 33 in Cina, e oltre 200mila persone hanno abbandonato le proprie case. Non è sufficiente per comprendere le dimensioni dell’emergenza climatica?
Lunedì scorso, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU ha pubblicato un rapporto con cui ha collegato in modo inequivocabile – qualora ce ne fosse ancora bisogno – la frequenza dei fenomeni meteorologici estremi all’attività umana, chiudendo la bocca a chiunque, in questi anni, abbia tentato di sostenere che avessimo a che fare con cambiamenti naturali del clima terrestre di cui l’umanità non ha responsabilità. In realtà, forse, è vero, non è l’umanità tutta a portare sulle proprie spalle la responsabilità di ciò che sta accadendo nel mondo, eppure sono tutti, a partire da chi ha meno colpe, a subirne le conseguenze.
Innanzitutto, le responsabilità vanno circoscritte ai paesi industrializzati, e dunque ai più ricchi del pianeta. Mentre i paesi poveri affrontano le siccità e le conseguenti carestie causate dall’industrializzazione scellerata e priva di cautele degli altri, coloro che possono permettersi di investire parte del proprio capitale nella salvaguardia dell’ambiente decidono arbitrariamente di non farlo. Mentre gli allevamenti intensivi di bestiame sono responsabili del 51% delle emissioni di gas serra, sono i cittadini ricchi a scegliere di consumare sempre più carne. Gli stessi che non si sacrificano sui trasporti, sui viaggi, sugli agi. Chi è causa del riscaldamento globale, lo è ogni giorno per le scelte che opera quotidianamente, a partire dalla più incomprensibile di tutte: quella di ignorare l’imminenza dell’emergenza per decenni.
A lungo, la comunità scientifica ha parlato di un punto di non ritorno, raggiunto il quale non ci sarebbe stato più modo di arrestare la serie di catastrofici eventi derivati dall’aumento delle temperature globali, e per decenni quel punto di non ritorno è stato considerato lontano, lontanissimo, tanto da poter rimandare la questione climatica e metterla in fondo all’agenda politica. Ma mentre l’emergenza lampeggiava sulle nostre teste, mentre quel punto di non ritorno si spostava sempre un po’ più indietro nel tempo, i progetti creati per limitare i danni sono stati fatti tutti troppo a lungo termine. Basti pensare agli Accordi di Parigi, che hanno l’obiettivo di tenere la temperatura media globale ben al di sotto dei due gradi in più rispetto a quella preindustriale, i cui obiettivi sono fissati per il 2050. Tra trent’anni. Il punto di non ritorno si ferma molto prima. Ma a quale catastrofe dobbiamo assistere prima che l’emergenza climatica ci faccia dire, definitivamente, adesso basta?
Quando ero bambina e studiavo geografia sugli stessi libri su cui l’abbiamo studiata tutti, si diceva che il clima in Italia fosse mite e raggiungesse la temperatura massima di 25 gradi. Eppure, già all’epoca, mi capitava di pensare che il libro sbagliasse, perché d’estate poteva fare anche molto più caldo di così, si arrivava a 28, a volte addirittura a 30 gradi. Ci penso spesso a quel libro, al nervosismo di quei mesi più caldi di due o tre gradi di quanto avrebbero dovuto essere. Ci penso con nostalgia, perché non so cosa darei per avere di nuovo un’estate così fresca. Ci penso mentre mi rendo conto che fuori ci sono 48 gradi, che le ventole del mio ventilatore si surriscaldano troppo in fretta, che la gente lì fuori sta morendo, e che chissà per quanti anni ancora quelli come me potranno permettersi un ventilatore o, addirittura, l’aria condizionata. Ci penso mentre vedo l’ombra dell’emergenza climatica incombere su di noi, sulle nostre vite. E mi viene da pensare adesso basta. Ma non ha senso pensarlo da soli, ognuno rintanato nella propria fresca stanza. Dobbiamo farlo tutti insieme, prima che sia troppo tardi.