La vicenda che ha coinvolto il giocatore uruguaiano Luis Suárez nell’ultima settimana è nota a tutti ed è un’ottima occasione di riflessione per andare al di là dell’immediata – e comprensibile – indignazione che ha sconquassato l’opinione pubblica.
Andando con ordine, Suárez ha richiesto la cittadinanza e il passaporto italiani per entrare nella rosa di una nota squadra di calcio che, in base alle limitazioni vigenti, non avrebbe potuto ottenere l’attaccante se non come giocatore comunitario. Avendo sposato una donna di origini friulane e con doppio passaporto, la possibilità era quindi quella di superare un esame che accertasse un livello di conoscenza della lingua B1 al fine di attestare la propria italianità. La prova si è tenuta lo scorso 17 settembre, ma subito dopo la procura di Perugia, sede dell’Università per stranieri coinvolta, ha iscritto nel registro degli indagati il direttore generale dell’ateneo Simone Olivieri e la rettrice Giuliana Greco Bolli per rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici, oltre che per concorso in corruzione in base agli articoli 110 e 319 del Codice Penale, per aver organizzato una sessione di esami straordinaria per motivi inconsistenti. Luis Suárez, che in base alle intercettazioni parla all’infinito e non coniuga i verbi, avrebbe infatti concordato le domande con l’esaminatore e conosciuto il punteggio attribuitogli addirittura prima della prova stessa.
Al di là delle irregolarità riscontrate nella procedura e di un’ingiustizia dettata dal peso del denaro – l’esame lo deve passare perché guadagna 10 milioni a stagione –, una tale vicenda deve spingerci a precise riflessioni sulle modalità di attribuzione della cittadinanza e sul suo valore reale a dispetto degli strenui difensori della pura italianità. L’ultima legge sulla cittadinanza, la L. 91 del 1992, fonda l’attribuzione dello status di italiano sullo ius sanguinis, il cosiddetto diritto di sangue. Si è italiani se nati da almeno un genitore italiano o, in base alle ultime modifiche, se si è sposati con un italiano o si riesca a dimostrare di avere un avo di origini nostrane. In quest’ultimo caso, sarà necessario dare prova di padroneggiare la lingua sottoponendosi a uno specifico esame presso l’Università per stranieri, ora finito al centro della bufera.
È inoltre possibile ottenere la cittadinanza per naturalizzazione, dimostrando di aver vissuto stabilmente in Italia per almeno dieci anni, di certo l’ipotesi meno frequente poiché spesso gli stranieri vivono in una condizione di irregolarità che comporta la conseguente difficoltà di avere un’abitazione stabile e un’occupazione che possa dimostrare la propria permanenza nel nostro Paese. Poco coerentemente, invece, chi nasce in Italia non è italiano se i suoi genitori non lo sono. Questa è la condizione in cui versano centinaia di migliaia di ragazzi che avrebbero diritto alla cittadinanza molto più di coloro che la ottengono perché discendenti lontanissimi di un italiano. E, invece, lo ius soli è stato osteggiato in qualsiasi modo in Parlamento, con gli aspiranti che possono ottenere i documenti solo al compimento della maggiore età, dimostrando di aver concluso un corso di studi e di essere madrelingua.
Dunque, a uno straniero viene richiesto uno sforzo molto più ingente per ottenere ciò che in realtà gli spetterebbe di diritto perché ha visto la luce in Italia e magari lo sente come il suo Paese, nonostante questo non lo meriti affatto. Si tratta di una logica arcaica che avremmo dovuto superare da tempo, in cui il mio essere italiano puro – per utilizzare un termine che ben si adatta alla situazione – è sancito dal mio sangue e non dalla mia vita qui, in una terra che potrei non aver mai visto.
Quello sulla riforma della cittadinanza è un dibattito che va avanti oramai dalla fine degli anni Novanta, quando timidamente si avanzarono le prime ipotesi di estensione della stessa non solo agli stranieri che risiedessero sul territorio da tempo ma soprattutto ai loro figli nati e cresciuti in Italia. Il primo tentativo fu fatto nel 1999 dall’allora Ministra degli Affari sociali Livia Turco, che si proponeva di attribuire la cittadinanza ai bambini che avessero cinque anni – trascorsi in Italia – prima che iniziassero la scuola e rischiassero così di subire discriminazioni di trattamento fin dal loro inserimento scolastico. Altre idee rimasero, invece, nei progetti di riforma successivi, tutti miseramente falliti in Parlamento.
Venendo a tempi più recenti, la riforma dello ius soli è nel programma politico del PD già dal 2013, ma i dem, anche quando avevano la maggioranza in Parlamento, non sono mai riusciti – o, meglio, non hanno mai voluto – imporsi sul tema poiché convinti che potesse far perdere loro consensi o che non fosse di particolare interesse per la collettività. Al di là di mere enunciazioni di principio – che molti definirebbero buoniste –, nei fatti ancora oggi le scelte politiche della sinistra non hanno molto di diverso rispetto a quelle del centrodestra che, sin da quando si è insediato, ha riportato il tema dell’immigrazione e della cittadinanza al centro dell’attenzione ma con propositi tutt’altro che positivi. Spostandosi nell’ambito dell’ordine pubblico, presentando l’immigrazione come un’invasione e un’emergenza senza fine, il dibattito pubblico si è concentrato tutto sulla paura, consentendo alle destre di diventare sempre più autoritarie e dispotiche. Un discorso facilmente estendibile anche all’attuale coalizione di governo che, presentatasi come portatrice di discontinuità, in realtà non fa altro che seguire il solco già tracciato dall’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini, come dimostra la mancata abrogazione dei decreti sicurezza, costantemente rimandata.
Il caso che ha coinvolto Suárez è sicuramente un’offesa nei confronti di chi – centinaia di migliaia di persone – la cittadinanza italiana la sogna per anni e rischia, a causa della barbarie delle leggi in materia, di non ottenerla mai. Quella cittadinanza che è fonte di paura, di angoscia, che rappresenta un’occasione di riscatto e miglioramento della propria vita in un Paese in cui sono pochi i diritti che si ottengono solo in quanto uomo, altrimenti soggetto a soprusi e vessazioni. Soprattutto, questa vicenda ci dimostra come faccende che non dovrebbero riguardare in alcun modo il denaro in realtà si pieghino sempre a ricatti economici, secondo i quali la vita di una persona che non guadagna 10 milioni all’anno non vale nulla. A ribadirlo le stesse intercettazioni in cui addirittura si promette di mandare all’università altri giocatori extracomunitari che dovranno sostenere l’esame, calati in una logica di scambio di persone vergognoso.
Eppure, i moltissimi che si sono indignati per quanto avvenuto con Suárez non fanno lo stesso quando quotidianamente, sulla pelle dei non italiani, si consumano delle ingiustizie né quando si decide di non creare meccanismi di regolarizzazione e attribuzione della cittadinanza meno rigidi e astrusi, realmente rispettosi della dignità umana e delle persone. Quando pretenderemo che il tema della cittadinanza torni al centro dell’agenda politica? Quanto impiegheremo a sopire l’indignazione e ad assuefarci nuovamente alla logica del profitto che piega le persone e i loro sogni?