Lo abbiamo rifatto. Anche stavolta, in occasione delle feste, abbiamo mangiato come se non ci fosse un domani. Dalla classica colomba, alla pastiera, al tortano o casatiello, senza prima dimenticare gli immancabili salumi e la ricotta salata, sulle nostre tavole di sicuro non sono mancate le prelibatezze più squisite. Uova di cioccolato comprese. Bianche, al latte, fondenti o mandorlate, hanno coccolato i nostri palati e concluso i pasti nel modo più dolce possibile. E così, tra un morso e l’altro, la diciassettesima Pasqua del nuovo millennio ci ha salutato per lasciarci in attesa del prossimo appuntamento del 2018. Le polemiche che l’hanno contraddistinta, però, comode nell’ottusità di chi le alimenta, ancora non sembrano intenzionate a fare le valigie.
Come ogni anno, infatti, in occasione della festa della Resurrezione di Cristo, le discussioni più svariate non si sono fatte attendere. Stavolta, con qualche novità in più. Come se non bastasse la diatriba storica tra agnello sì – agnello no (però al maiale non rinuncio) con tanto di poe… ehm… patetica immagine di un tenero Silvio animalista, al centro dei dibattiti intorno alle nostre tavole vi è stato un nuovo tema: il gender. Bene, penserete, finalmente anche l’Italia è pronta ad affrontare sul serio l’argomento. E, invece, no, cari lettori, riponete le speranze: ci vorrà molto più di tanto tempo.
La questione a cui facciamo riferimento è nata dal disappunto di alcuni consumatori che, acquistando dei doni al cioccolato per i più piccini, hanno mosso delle critiche alla più nota marca di dolcezze per bambini, e non solo, definendola sessista e discriminatoria. Pare, infatti, che la distinzione – puramente indicativa e commerciale – delle sorprese, effettuata dal produttore sulle etichette delle uova, non abbia raccolto una percentuale elevatissima di consensi.
Sulle note confezioni, avrete notato, in base agli oggetti nascosti, vi era la scritta Lui o Lei a suggerire quali regali avrebbero potuto essere probabilmente più graditi dai maschietti e quali dalle femminucce. Insomma, un orientativo quanto irrilevante consiglio agli acquisti che nulla impediva o imponeva ma al quale, come si evince dal web, tanti mamme e papà hanno attribuito un significato diverso. Sono molteplici, infatti, i post e le segnalazioni inviate alla pagina del celebre marchio in cerca di una spiegazione di tale scelta pubblicitaria per alcuni inopportuna e inibitrice nei confronti di nonni indecisi o ignoranti i gusti dei propri nipotini. Molti, inoltre, hanno consigliato agli esperti di marketing di aggiornarsi e riflettere sull’anno in cui siamo: nel 2017, dicono, lo scoglio differenziale tra i sessi dovrebbe essere stato superato già da un po’. Per tale motivo, discernere le possibili sorprese per categorie risulta anacronistico e fuori luogo. Ma è davvero così? Insomma, siamo realmente a questo punto, anche in Italia? E quanto un banale pronome – a scopo pubblicitario – può condizionare una rivoluzione sociale? Soprattutto, è mai iniziata?
In effetti, una polemica che lascia il tempo che trova, come quella avanzata, fa sorridere in modo più che naturale. In un Paese che non riconosce, non celebra e non tutela le differenze – qualunque esse siano – appare piuttosto paradossale dare così tanta importanza e addossare colpe di un’arretratezza morale notevole a un uovo di cioccolato. Ai genitori che si sono esposti in difesa di una libertà da ricercare e proteggere costantemente per i propri bambini, verrebbe da chiedere quando e in che misura, poi, ne lascino ai figli. Se con questi ci parlino davvero o, a prescindere, sanno già ogni cosa.
Sin dal giorno in cui nasciamo, qualcuno decide che il fiocchetto da mettere in mostra per celebrare la nostra venuta al mondo è rosa se siamo bimbe, azzurro se siamo bimbi. A seguire, dello stesso colore, il più delle volte, anche bavaglini, tutine e copertine, fino ad arrivare ai grembiuli nelle scuole. Tutto, da ancor prima di aprire gli occhi per la prima volta, preannuncia chi la società – in una semplice equazione sesso uguale individuo – vorrà che saremo, a prescindere da come noi, invece, sentiremo di essere. E, così, al figlio maschio si regalano un pallone e la maglietta della propria squadra del cuore, macchinine da corsa e soldatini, il necessario per un uomo vero. Alla figlia femmina, invece, bambolotti e cucine, trucchi finti e stoviglie, il kit della futura casalinga modello. Il primo, poi, molto probabilmente, indosserà calzoncini e calzettoni sulle orme di Maradona; alla seconda, in cambio, spetteranno ore in tutù o a emulare Mila Hazuki. Intanto, le nonne le prepareranno il corredo. Per ognuno di noi, dunque, altri al di fuori della nostra persona, i “grandi”, tracciano un percorso che si aspettano che seguiamo, spesso deludendoli se ce ne allontaniamo.
Quando ancora le nostre parole non sono pronunciate, la vera natura consapevolmente rivelata, il mondo dà le sue risposte alle nostre domande. Guai a provare a cambiarle, nessuno ci difende, né la società civile né la legge.
Appare evidente, quindi, quanto la sterile obiezione italiota non trovi fondamento serio. È impensabile e – perdonatemi – altamente ridicolo riscontrare in un’etichetta disparità di genere o sessismo nello stesso Paese in cui un uomo che cura il proprio corpo viene definito effeminato e una donna che ama andare allo stadio un “maschiaccio”. Dove per lui contano le competenze e per lei la bella presenza, dove per le medesime mansioni la paga è differente. Nello stesso Paese in cui famiglia è sinonimo di eterosessualità e diversità quasi una malattia da curare.
Ai genitori di cui sopra, scandalizzati e offesi perché alle proprie figlie piace Star Wars – i cui gadget nascosti nelle dolci prelibatezze, secondo confezione, non spetterebbero loro – verrebbe da chiedere, anche, cosa pensino della possibilità di aprire a un’educazione al genere e in che termine aiutino i più piccoli a non sentire l’eco delle aspettative sulla mascolinità e sulla femminilità che secoli di stereotipi e luoghi comuni hanno generato nelle nostre teste, causando disagio, infelicità e, troppo spesso, paura e bullismo.
Forse, le rivoluzioni andrebbero fatte partire nella testa, ancor prima che nelle uova di cioccolato. Le etichette, quelle sociali, sono più difficili da staccare.