Per comprendere quello che sta succedendo in Cile in queste ore dobbiamo fare un passo indietro e tornare all’ottobre 2019.
Pochi giorni prima dell’esplosione di eventi che stanno segnando il presente del Paese andino, il Presidente Sebastián Piñera aveva avuto modo di dichiarare che il Cile rappresentava un’oasi di pace nel mezzo delle turbolenze che stavano interessando i Paesi vicini. Erano le settimane delle mobilitazioni in Ecuador, del caos istituzionale in Perù. Piñera sembrava tranquillo. I fatti avrebbero smentito di lì a poco la sua lettura.
La rivolta popolare che seguì partì dalle proteste contro l’ennesimo aumento del prezzo dei biglietti della metro, quando il 18 ottobre gli studenti cominciarono a saltare i tornelli e, dopo l’avvio di una feroce repressione da parte del governo di Piñera, anziché rientrare si allargò. Non solo in termini di partecipazione – capace di toccare vette di 2 milioni di persone mobilitate in un solo giorno, la più grande manifestazione nella storia del Cile – ma anche di rivendicazioni. Il popolo cileno cominciava a contestare esplicitamente il “sistema” costruito a partire dal golpe del 1973 contro il Presidente Allende.
Ben presto tra le parole d’ordine ci fu quella delle dimissioni di Piñera e, soprattutto, fatto di portata storica, la convocazione di un’assemblea costituente che potesse finalmente mettere fine alla Costituzione del 1980, approvata sotto la dittatura di Pinochet, più volte modificata ma ancora in vigore nella sua sostanza. Una Costituzione che aveva dato forma allo Stato minimo, al campione del neoliberismo, al Paese che anticipò i processi che poi avrebbero visto la luce negli USA sotto la presidenza Reagan e in UK sotto i governi di Margaret Thatcher.
La richiesta di un’assemblea costituente, dunque, si è fatta velocemente strada diventando idea-forza che si è impossessata del popolo cileno: nell’ottobre 2020 quasi l’80% dei cittadini e delle cittadine ha dato il via libera al processo che dovrà cambiare la carta costituzionale. Sabato 15 e domenica 16 maggio la popolazione cilena è stata chiamata a scegliere i 155 rappresentanti della Convenzione Costituente, tra un totale di quasi 1300 candidati. Nella Convenzione siederanno 17 rappresentanti dei popoli indigeni e almeno il 45% del totale dei costituenti sarà donna.
Le urne hanno dato un responso inequivocabile, bocciando nettamente i partiti di governo, riuniti nella lista Vamos por Chile, cui andranno solo 38 seggi – insufficienti per esercitare il potere di “veto”, vero obiettivo della destra cilena in questa fase – ma anche la lista Apruebo, della Concertación, vale a dire dei partiti di “centrosinistra”, a partire dal Partido Socialista, che elegge 25 costituenti. Cos’hanno in comune i due blocchi sconfitti? Che hanno avuto entrambi per trent’anni, alternandosi al governo, la possibilità di un cambiamento profondo e non l’hanno mai portato avanti. Si tratta, cioè, di partiti di sistema, pur con evidenti differenze, dal momento che nelle fila di Vamos por Chile si trovano non pochi nostalgici di Pinochet, mentre nella Concertación esponenti che quella dittatura l’hanno combattuta.
A vincere, invece, sono opposizione e indipendenti (48 seggi). Vince la lista Apruebo Dignidad, composta dai partiti del Frente Amplio, dal Partito Comunista e dal Frente Regionalista Verde Social, che ottiene 27 seggi. Vince la Lista del Pueblo, coi suoi 24 costituenti che rappresenteranno le istanze sorte proprio nelle giornate dell’ottobre 2019. Vince l’altra lista autonoma, Nueva Constitución, con 11 seggi. I restanti 13 vanno a candidati indipendenti che non appartengono a nessuna delle liste precedenti.
Per chiudere il quadro, però, non si può non citare il dato della partecipazione elettorale: solo il 40% degli aventi diritto si è recato alle urne. Il motivo di tanta astensione risiede in ampia parte in una sfiducia complessiva nei confronti dei cambiamenti che possono irradiare le istituzioni. Trent’anni di alternanza di governi di destra e di centrosinistra hanno seminato un bel po’ di disillusione. Un segnale per certi versi speculare allo straordinario successo di candidati indipendenti.
È la prima volta che in Cile si consente a persone al di fuori delle strutture partitiche tradizionali di presentarsi alle urne. Malgrado la sperequazione nelle condizioni di accesso alla competizione, malgrado i budget incommensurabili a disposizione dei partiti (il partito di Piñera pare abbia investito 800mila dollari) e degli indipendenti (1700 dollari in media), gli indipendenti sono stati l’opzione per un cileno su tre. Ora si aprono nove mesi di tempo in cui bisognerà redigere un nuovo testo costituzionale, con possibile proroga di ulteriori tre mesi. Infine, tra un anno, il popolo cileno sarà chiamato nuovamente alle urne per dire sì o no alla nuova Costituzione.
La rivolta popolare nata nell’ottobre 2019 mostra nitidamente che un popolo mobilitato può produrre cambiamenti nel senso comune e, anche, nell’assetto istituzionale. Non bisognerà commettere l’errore di deporre quest’arma e di ripiegare completamente su ciò che accadrà all’interno della Convenzione Costituente. C’è, infatti, il rischio di essere presi in trappola dai meccanismi di mediazione e scontro che si possono produrre in questa assise. Ma se c’è una cosa che insegna la storia cilena di questi ultimi due anni è che il potere popolare si costruisce con la partecipazione diretta e non con la delega ad altri, per quanto questi ultimi possano essere animati da buone intenzioni.
Infine: nel weekend scorso non si è votato solo per la Costituente, ma anche per 346 municipi e i rispettivi Consigli Comunali. Anche a livello amministrativo c’è stata una vittoria dirompente dell’opposizione. In particolare, la vittoria a Santiago del Cile, la capitale del Paese, da parte di Irací Hassler, trentenne economista, femminista e militante del Partido Comunista de Chile, significa la possibilità di operare una rottura e una trasformazione nel centro politico del Paese. E a novembre ci sono le elezioni presidenziali…
Il Sindaco comunista di Recoleta, Daniel Jadue, appena riconfermato, cresce nei consensi di giorno in giorno. L’irruzione sulla scena del popolo cileno potrebbe costruire le condizioni per provare a sanare quella ferita ancora sanguinante che si chiama 11 settembre 1973.