Ci vogliono ancelle, ci avranno ribelli. Non ci ferma nessuno noi donne, nemmeno la vostra arroganza. L’arroganza di una politica maschia che non perde mai tempo quando si tratta di imporsi nella nostra vita. Chissà perché passano i secoli ma non il livore che nutrite nei confronti dell’altro sesso, il nostro, quello debole. Non lo capiamo, in fondo, il vostro accanimento, la necessità di decidere di ogni nostro respiro. Non lo capiamo, tantomeno vogliamo farlo, non di nuovo. Sabato siamo scese in piazza, eravamo in migliaia in più di sessanta città di Italia. Da Milano a Palermo passando per Bologna, Firenze, Genova, Bari, Roma, Napoli. Avremmo voluto foste in tanti, uomini intendiamo, a farci compagnia, a gridare al nostro fianco. E, invece, le vostre voci non sono state forti abbastanza, non lo sono mai quando si tratta di spalleggiarci. Fossimo una squadra di calcio, forse, sareste sugli spalti a lanciare improperi, ma siamo solo donne, fortuna che abbiamo imparato a difenderci a vicenda. Vi abbiamo detto un altro no, sabato, il no a un decreto sessista che non ci tutela. Lo chiamate Legge Pillon, porta il nome del senatore leghista a cui non piacciamo molto, ma per noi è soltanto una vergogna.
Dovesse essere approvato, infatti, il ddl 735 ci metterebbe ancora più in difficoltà, ci priverebbe di ulteriori tutele e ci porrebbe alla mercé del nostro compagno. Il provvedimento riforma il diritto di famiglia, ridiscutendo i termini del divorzio e dell’assegno di mantenimento. Intende imporre alle coppie che si accingono a separarsi un percorso di tentata rappacificazione guidato da un mediatore. Sarà un caso, forse, che Pillon, nella vita, faccia proprio questo. Sono tante le associazioni che ci hanno affiancato per le strade: Unione donne in Italia, Cgil, Uil, Arci, Centro di ascolto uomini maltrattanti, Casa Internazionale delle donne, Coordinamento maltrattamento all’infanzia, Non Una di Meno, Telefono Rosa e altre ancora. Di.Re (Donne in rete contro la violenza) ha anche promosso una petizione online che sta riscuotendo un grande successo. Hanno chiesto, insieme a noi tutte esponenti della società civile – la nostra, non quella che vorreste ripristinare voi –, di ripensarci, di non insistere in questo tentativo di regresso, di arrestare il Medioevo nella sua cavalcata incessante. L’alta probabilità che non ci ascolterete non ci ha affatto demoralizzato.
Il testo in discussione rende difficile immaginare una separazione, già adesso complicata e non soltanto per la sua natura triste. Prevede infatti che, rigorosamente a pagamento, i due forse mai ex coniugi si rivolgano a un terzo, il mediatore di cui sopra, per cui non solo è necessario avere risorse economiche a sufficienza, ma anche augurarsi che il proprio sposo non sia un violento. Perché quanti schiaffi ci vogliono per pagarlo quel signore che vorrebbe farci negoziare con il nostro aguzzino? Dite, chissà, forse per tranquillizzarci, che la tariffa sarà stabilita dal Ministero, rispondete a una domanda, però: costa di più la violenza verbale o quella fisica? Per l’uccisione è previsto un risarcimento o i soldi spesi coprono i costi del funerale? E se, come Violeta, lui ci bruciasse vive, avrà avuto un senso chiacchierare con il mediatore? Avete così tante risposte a nessun quesito che poi, per quelli veri, non ve ne resta nemmeno una.
Anche per i bambini, si legge nella bozza del provvedimento, sarà tutto diverso. Stavolta, infatti, non vi siete accaniti solo su di noi, no, non vi siamo bastate. Avete sentito il bisogno di coinvolgerli, di condizionare anche la loro di vita, come se una famiglia che si scioglie non fosse già, nella maggior parte dei casi, abbastanza dolorosa. Avete pensato, allora, che il tempo per stare con l’uno o con l’altro genitore dovesse essere diviso equamente, discorso giusto in linea di principio, errato nell’applicazione quotidiana. Se mamma e papà abitano lontani, che facciamo, spediamo i pargoletti su e giù per lo Stivale soltanto per non trasformarci in fuorilegge? Nel testo si parla di doppia residenza. E se il papà fosse un violento? E se lo fosse la mamma? La domanda torna.
Indipendentemente dai rapporti intercorrenti tra i due genitori, il figlio minore, nel proprio esclusivo interesse morale e materiale, ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con il padre e con la madre, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambe le figure genitoriali, con paritetica assunzione di responsabilità e di impegni e con pari opportunità. Ha anche il diritto di trascorrere con ciascuno dei genitori tempi paritetici o equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale. L’importante è assicurare il diritto del minore a trascorrere tempi paritetici in ragione della metà del proprio tempo, compresi i pernottamenti, con ciascuno dei genitori. Salvo diverso accordo tra le parti, deve in ogni caso essere garantita alla prole la permanenza di non meno di dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti, presso il padre e presso la madre. Parole pericolose perché se uno dei genitori si oppone alle frequentazioni del bambino o anche nel caso in cui sia il piccolo a rifiutare una delle due figure parentali, il giudice può rivolgersi ai servizi sociali affinché il bimbo affronti uno specifico programma per il pieno recupero della bigenitorialità. A tal proposito, ancor meno rispetto nel minore si ha nell’affrontare il discorso dell’alienazione familiare, quella condizione di disagio che la comunità scientifica fa fatica a definire sindrome o malattia – perché la sintomaticità fissa è inesistente – che consiste nel rifiuto apparentemente immotivato del figlio nei confronti del genitore, per molti causato dal condizionamento psicologico esercitato su di lui dall’altro. Un errore grossolano che rischia di sottovalutare una richiesta silenziosa di aiuto da parte del piccolo che per svariati motivi, tra cui l’abuso, non è in grado di vivere il rapporto con chi gli ha dato la vita.
Più comprensibile, ma anche in questo caso soltanto in via teorica, il contributo diretto alle spese del figlio. Non sono poche le situazioni in cui il genitore – più spesso il papà – fa fatica a sbarcare il lunario perché tenuto a provvedere al sostentamento della sua (ex) famiglia. Lo chiamano assegno di mantenimento, ma è un’espressione che suona piuttosto male, come se l’altro coniuge – più spesso la mamma – non aiutasse in alcun modo. E, invece, non è mai così. Certo, il centro di tutto resta sempre il minore, ma cosa succede in caso di disparità di reddito? Perché lo sapete, vero, che noi donne guadagniamo statisticamente di meno? E sapete pure che quando desideriamo mettere al mondo un pargoletto o siamo in dolce attesa non ci assumono o ci rispediscono a casa? Un lavoro per garantire un tetto al nostro bambino, prima, durante o addirittura dopo il matrimonio, quando l’età è pure bella e che avanzata, chi ce lo dà? Lo sapete che a una ragazza con istinti materni nessuno vuole fare un contratto? Il provvedimento relega il coniuge economicamente più debole in una condizione di sudditanza che mina la stabilità di quei diritti conquistati nel tempo, quel tentativo di parità mai realmente concretizzatosi.
Il decreto Pillon entra a gamba tesa nelle vicende familiari, delle violenze, dei soprusi, delle iniquità che si verificano tra le mura domestiche ogni giorno. Lo fa senza chiederci il permesso, come sempre, d’altronde. Però ci siamo stancate e non poco. Così, se voi non volete protestare al nostro fianco, noi non ci fermiamo, scendiamo in piazza mentre ci chiamate per chiedere dove sono i calzini puliti o che cosa c’è per pranzo. Scendiamo in piazza a dirvi un altro no e alzeremo la voce finché non arriverà anche alle vostre orecchie. Non ci ferma nessuno noi donne. Sulle nostre vite nessuna mediazione, ora e sempre agitazione.